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Home » Lavoro » JOBS ACT/ Il rischio di un’altra bocciatura della Corte Costituzionale

  • Lavoro

JOBS ACT/ Il rischio di un’altra bocciatura della Corte Costituzionale

Francesco Sibani
Pubblicato 13 Febbraio 2020
consulta

La Corte Costituzionale (Lapresse)

I tribunali di Roma e Bari hanno chiesto alla Corte Costituzionale di pronunciarsi sull'articolo 4 del Jobs Act

Com’è noto, un paio di anni fa la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di una parte del Jobs Act (ovvero del D.Lgs n. 23/2015): quella relativa al meccanismo sanzionatorio previsto per il caso di illegittimità del licenziamento. In particolare, con sentenza n. 194/2018 la Corte Costituzionale ha bocciato l’art. 3, comma 1 del d.lgs. 23/2015 nella parte in cui prevedeva che, in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, le indennità previste dalla legge in favore del lavoratore dovevano essere quantificate in modo automatico e predeterminato a seconda dell’anzianità del lavoratore e a prescindere dall’effettiva gravità dell’illegittimità. L’effetto pratico della sentenza è stato quello di restituire al Giudice del lavoro il potere di graduare l’indennità risarcitoria a seconda della particolarità della vicenda (e ciò anche per rispondere “all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore“). Si tratta di un potere non da poco, visto che attualmente (a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 87/2018) la misura dell’indennizzo può variare tra le 6 e le 36 mensilità.


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Analogo meccanismo sanzionatorio (ovvero il pagamento di un’indennità in misura predeterminata e automatica a seconda dell’anzianità del dipendente) è stato previsto dal Jobs Act anche per il caso in cui il licenziamento sia afflitto “solo” da “vizi formali e procedurali” (art. 4 D.Lgs. n. 23/2015). Questi vizi sussistono qualora “il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione” ovvero qualora non sia stata rispettata la procedura prevista dall’art. 7 Stat. Lav. (secondo cui il datore di lavoro non può comunicare il licenziamento per ragioni disciplinari senza aver prima contestato al lavoratore l’addebito per iscritto e avergli consentito di rendere le giustificazioni entro il termine stabilito dalla legge stessa o dal Contratto collettivo nazionale di lavoro che regola il rapporto).


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La somiglianza tra le due norme è stata colta dal Tribunale di Roma nell’esaminare un caso in cui datore di lavoro aveva licenziato un proprio dipendente omettendo in toto la procedura prevista dallo Statuo dei Lavoratori. Con Ordinanza del 3/1/2020 il Tribunale di Roma ha così sollevato la questione di legittimità costituzionale del citato art. 4, ritenendo che le ragioni addotte dalla Corte costituzionale per dichiarare l’illegittimità dell’art. 3 del Jobs Act possono ben valere anche per il successivo art. 4.

Il Tribunale di Roma non è stato l’unico a segnalare l’analogia esistente tra l’art. 3 e l’art. 4 del Jobs Act e a dubitare della legittimità di quest’ultima norma. Anche il Tribunale di Bari, pochi mesi fa, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, rilevando che “anche le violazioni procedurali possiedono diverse gradazioni di gravità, e anche un licenziamento illegittimo per questioni di forma può produrre pregiudizi differenziati in base alle condizioni delle parti, all’anzianità del lavoratore, alle dimensioni dell’azienda“. Peraltro, nel caso trattato dal Tribunale di Bari, il datore di lavoro aveva correttamente avviato la procedura disciplinare, ma aveva omesso di avvisare il dipendente circa la possibilità di rendere giustificazioni. Ora la “palla” è alla Corte Costituzionale, che dovrà vagliare la questione.


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I due casi esaminati dai Tribunali di Roma e Bari possono aiutarci a comprendere la problematicità del meccanismo introdotto dalle “tutele crescenti”: un conto è infatti non esperire affatto la procedura stabilita dallo Statuto dei Lavoratori e licenziare immediatamente il dipendente, e tutt’altro conto è esperire la procedura dimenticando di dare un termine al lavoratore per giustificarsi (e, potremmo aggiungere, caso ancora diverso è quello di assegnare al lavoratore il termine per giustificarsi stabilito dallo Statuto dei Lavoratori, sebbene il Ccnl ne preveda uno maggiore). In tutti questi casi, notevolmente diversi per gravità, la sanzione attualmente prevista dalla legge è sempre la stessa, a seconda dell’anzianità del lavoratore. E non è affatto detto che ciò sia un bene per il datore di lavoro: in caso di una violazione formale di minima rilevanza posta in essere nei confronti di un dipendente con 12 o più anni di anzianità l’indennità sarebbe infatti pari a 12 mensilità (il massimo previsto dalla norma). Qualora invece l’art. 4 seguisse la stessa “sorte” toccata all’art. 3 dello stesso Jobs Act, il Giudice potrebbe “modulare” la sanzione a seconda della caratura del vizio formale (alleviando l’importo dell’indennità da far pagare all’impresa).


LICENZIAMENTI/ Lo "scossone" per le Pmi dopo la sentenza della Corte Costituzionale di luglio


Di un simile “beneficio” il datore di lavoro potrebbe però concretamente giovarsi solo tra sette anni: poiché il D.Lvo n. 23/2015 si applica ai lavoratori assunti dal 7/3/2015, l’indennità nella misura massima di 12 mensilità per 12 (o più) anni di anzianità potrà trovare applicazione solo dal 2027…

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  • Tags: Licenziamenti e articolo 18

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