Vent’anni fa moriva Federico Fellini. La sua scomparsa, che ebbe un’eco come poche altre in tutto il mondo, piangiamo ancora oggi come quella di un immenso artista, maestro della luce cinematografica, narratore di volti e indimenticabili caratteri, che seppe renderci familiari temi universali e sincero parlarci diritto al cuore, come solo i più autentici cantori della Musa della Settima Arte hanno saputo e sanno fare.
Secondo una delle tante leggende di cui è colma la sua vita, che lui stesso mai amava smentire, Fellini sarebbe nato su un treno in corsa tra Viserba e Riccione. Nacque in realtà la sera di martedì 20 gennaio 1920 nell’appartamento dei genitori – Urbano e Ida Barbiani – in viale Dardanelli 10 a Rimini, giusto dietro al Grand Hotel. Circostanza curiosa e forse fatidica, come se ne incontrano tante nella biografia di Fellini, fu che la sera di quello stesso martedì, al Politeama Riminese, era di scena il pesarese Annibale Ninchi nella tragedia Glauco; l’allora giovane attore che quarant’anni dopo impersonerà il padre del protagonista, quindi – di riflesso – la figura dello stesso Urbano Fellini, nei film forse apicali della carriera di Federico: La Dolce Vita (1960) e 8 ½ (1963).
Nonostante vari tratti autobiografici e memoriali rintracciabili, parafrasati e falsificati, in gran parte della sua Opera parrebbero suggerirlo, Fellini non fu mai un “vitellone”. Se ne andò non ancora ventenne dall’immobile provincia, con coraggio e voglia di fare arrivò a Roma, città natale della madre Ida. Nell’Urbe eterna – per lui, giovane talentuoso, un palcoscenico a cielo aperto – trovò subito di che mantenersi, prima come articolista e fumettista satirico al bisettimanale Marco Aurelio (1939), poi come soggettista e sceneggiatore per i maestri del neorealismo.
Fu infatti Roberto Rossellini, offrendogli nell’estate del 1944 di collaborare al nascente progetto di un film che diventerà poi Roma Città Aperta (1945), a introdurlo definitivamente nel mondo che resterà il suo per il resto della vita. Fece, in questi anni da sceneggiatore precedenti l’approdo alla regia, gli incontri fondamentali della sua vita – artistica e non – in Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano, e soprattutto in Giulietta Masina, che conobbe negli uffici romani all’Eiar nell’autunno del 1942 e sposò solo un anno dopo. Anni nei quali, immessosi con indoma curiosità e fede nel Fato in quello che l’amato Dostoevskij definiva “il fiume della vita”, gradualmente Federico scopre la sua “missione cinematografica”.
L’esordio alla regia fu atipico, vissuto quasi solo da spettatore del lavoro di Alberto Lattuada in Luci del Varietà, girato nell’estate del 1950, in cui il nostro è accreditato come co-regista. La leggenda – anche qui – vuole invece che Fellini diventò quel regista che poi tutto il mondo conobbe durante il primo ciak de Lo Sceicco Bianco (1952). Spiaggia di Fregene settembre 1951, comincia la lavorazione del film: Fellini deve dirigere una scena con Alberto Sordi (lo sceicco dei fotoromanzi) e Brunella Bovo (la sua fan) su una barchetta che dovrebbe sembrare in mare aperto. Dopo i primi ordini impacciati e discordi, mossi con fatica come in un incubo, i successivi passi acquistano vigore e chiarezza, divengono man mano più sicuri fino a che il tutto si trasforma in un sogno giocoso; e sembra quasi di sentire sullo sfondo la marcetta che Nino Rota comporrà per 8 ½. La grande giostra del cinema felliniano è partita e non si fermerà mai più.
Seguono quarant’anni di regie e progetti, un film dietro l’altro senza sosta. Saranno in tutto diciannove (e mezzo) lungometraggi, tre corti inseriti in altrettanti film a episodi, e un documentario, commissionato dalla NBC americana e girato in proprio, in forma di diario, sulla lavorazione del Fellini-Satyricon (1969). Inutile dirlo: trovano posto nella sua filmografia alcuni tra i massimi capolavori del cinema di sempre, tra cui – per non eccedere in citazioni – nominiamo solo l’immenso e imitatissimo 8 ½ (1963) e l’esemplare Amarcord (1973). Titolo, questo, che come successo ad altri passaggi o personaggi dei suoi film (La Dolce Vita, I Vitelloni, La Città delle Donne, La Strada), entrerà nel linguaggio comune come neologismo paradigmatico, col significato di “ricordo, rievocazione nostalgica”; privilegio concesso dalle Muse delle Arti solo ai di lor più bravi cantori (un esempio per tutti: il Manzoni e la sua Perpetua).
Federico Fellini è stato anche il regista pluripremiato del cinema italiano: dai quattro Oscar vinti per il miglior film straniero (La Strada, Le Notti di Cabiria, 8 ½ e Amarcord), alla Palma d’Oro di Cannes per La Dolce Vita, ai numerosi premi nazionali (quattro Nastro d’Argento, due volte Leone d’Argento a Venezia), fino all’Oscar alla carriera, avuto nell’anno della scomparsa e consegnatogli a Los Angeles da Sophia Loren e Marcello Mastroianni – con Giulietta in platea – durante una breve, struggente quanto affettuosa cerimonia (disponibile su youtube, ne consiglio la visione).
L’ultimo film La Voce della Luna (1990), girato nella primavera estate del 1989, rimane nelle cronache soprattutto per aver dato possibilità espressive alternative – o nuove – a due attori importanti del panorama di allora: Benigni e Villaggio. Per entrambi si deve rilevare, con rammarico, che la struttura produttiva del cinema italiano degli anni Ottanta e Novanta (come quella odierna) ne ha determinato una colpevole sottoutilizzazione, costringendoli a inventarsi autori e registi (non essendone quasi in grado) o relegandoli al cinema di cassetta, di troppo facili e popolari costumi. Due attori del genere di molto meglio avrebbero dato se – per ipotesi assurda, che riporto per sola scuola – fossero vissuti in altri anni, quindi con la possibilità di essere diretti da registi veri e inseriti in progetti non solo votati all’incasso facile.
Cosa simile si deve dire per l’epilogo del percorso artistico di Federico Fellini. La Voce della Luna fu un flop commerciale, quindi nessun produttore, colpevolmente, volle dargli la possibilità di realizzare il suo film definitivo, quello pensato già all’indomani di Giulietta degli Spiriti (1965) e rimandato per tante volte: Il Viaggio di G Mastorna; circostanza che testimonia il decadimento anche in ambito storico e intellettuale di un certo cinema italiano più recente. Per queste vicende inoperoso da un paio d’anni, se non – ironia della sorte – per alcuni spot pubblicitari, e sempre più precario in salute, la morte infine l’ha colto a mezzogiorno di domenica 31 ottobre 1993 (il giorno dopo il cinquantesimo di matrimonio) al Policlinico Umberto I di Roma, dopo due settimane esatte di coma, durante le quali – il ricordo è anche personale – tutto il mondo delle Arti, e non solo quello, tratteneva il respiro e manifestava gratitudine e sincero affetto. Che almeno gli sia stata, e per sempre gli sia, lieve la terra.