Se ci si limita ad ammirare le scelte stilistiche de "La trama fenicia", c'è il rischio di perdersi il bello del nuovo film di Wes Anderson

A volte gli occhi ci ingannano e chiudono le porte agli altri sensi, alla percezione profonda, al cervello e al cuore. Accade questo con i film di Wes Anderson da un po’ di tempo a questa parte, per la precisione dopo il successo di The Grand Budapest Hotel: critica e spettatori si concentrano sulla forma e lo stile, dimenticando il resto. Comprensibile, visto che Anderson dello stile ha fatto un marchio, ma così si fa un torto ai suoi film.



Per esempio al suo ultimo La trama fenicia, nelle sale dopo la presentazione al festival di Cannes: un’avventura di spionaggio industriale in cui un ricchissimo e onnipotente magnate (Benicio Del Toro) cerca di portare a compimento un’imponente opera di costruzioni assieme alla figlia (Mia Threapleton), novizia in attesa di prendere i voti, che non vede da anni, passando tra attentati, truffe, guerriglieri, disastri aerei e partite di basket.



Assieme al sodale Roman Coppola, Anderson torna ai meccanismi narrativi del suo più grande successo, The Grand Budapest Hotel, e continua a perseguire la strada di un cinema a misura di fumetto (Rub Goldberg come massimo ispiratore), pensato, composto e colorato come una striscia disegnata, in cui le avventure e i personaggi ondeggiano tra infantilismo e seriosità, immersi in simmetrie, pastelli, meccanismi, dispositivi da cui non possono uscire, esattamente come i loro sentimenti ed emozioni sono incastrati.

Se però ci si lascia confondere gli occhi da questa meraviglia visuale, che lascia senza dubbio ammirati per la cura e la perizia con cui costruisce un mondo e lo fa pulsare (l’evoluzione dei personaggi non necessita di parole, ma avviene attraverso i cambi di costume e gli oggetti di scena), si confonde una forma estetica con lo stile, ovvero il modo con cui Anderson dice ciò che vuole dire, racconta ciò che gli sta a cuore: ci sono le famiglie scombinate, i rapporti tumultuosi tra padri e figli, il mondo che impazzisce e un paio di eroi che cercano di dargli un senso.



Soprattutto, però, c’è la storia di una doppia formazione: quella di un ricchissimo magnate fuori dalla realtà, uno a cui “non servono i diritti umani” (e infatti pratica lo schiavismo nelle proprie aziende), capace di tutto, anche di sopravvivere a una mezza dozzina di attentati, e che però viene ricondotto alla realtà dalle proprie stesse scelte, dalla sconfitta di un modo di pensare al mondo e ai rapporti con gli altri; accanto a lui, una donna che vorrebbe chiudersi nel proprio spirito e che invece scopre i suoi talenti, molto pragmatici e poco mistici, e li mette a servizio degli altri.

In filigrana, un film politico sul capitalismo contemporaneo e sul neo-colonialismo, raccontato però con la precisione leggera, lunare e surreale di Anderson, capace di usare i suoni, le musiche (di Alexander Desplat), l’alternanza di un montaggio ossessivo e ridondante e di uno ellittico (di Barney Pilling), i bordi delle immagini di Bruno Delbonnel per fare humour e costruire emozioni, per forzare con l’accendersi di emozioni sopite le gabbie (anche formali) in cui abitano i suoi personaggi.

Alla faccia del film e del regista che “non hanno più nulla da dire”.

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