Il mondo economico Usa è preoccupato dei dazi di Trump: potrebbero essere un boomerang. I mercati hanno già reagito male
Trump vara i dazi nel Liberation Day, ma le sue stesse aziende sono preoccupate per le ripercussioni che avranno sulla loro attività. È preoccupato il mondo agricolo, lo è quello automobilistico, così come i mercati, visto che a ogni parola sull’aumento delle tariffe relative ai prodotti in arrivo dall’estero hanno accusato pesantemente il colpo. C’è nervosismo nel mondo delle imprese a stelle e strisce, osserva Rita Lofano, direttore responsabile dell’AGI, cui ha dato voce anche il Wall Street Journal.
I dazi, insomma, potrebbero non essere proprio un toccasana. È anche vero che Trump ha fama di essere un uomo pragmatico e ha dimostrato di non essere una persona che non cambia mai idea. C’è ancora spazio, insomma, perché cambi rotta, convinto dagli eventi o perché conceda la possibilità di arrivare ad accordi che scongiurino gli effetti negativi, per gli USA e per gli altri, della sua politica.
L’Europa e il mondo intero sono preoccupati degli effetti che avranno i dazi di Trump, ma l’America cosa ne pensa? Saranno veramente lo strumento per tornare a essere grandi, come vuole il motto del presidente?
Negli USA c’è nervosismo, perché ovviamente aumenterebbero i costi per le aziende, ma anche per i consumatori. Così sarà per gli agricoltori, ad esempio, tant’è che il segretario dell’Agricoltura ha lasciato intendere che, nel caso di una vera guerra commerciale, potrebbe varare dei sussidi. Durante il primo mandato Trump aveva stanziato 16 miliardi di dollari per gli agricoltori. E secondo le stime della Casa Bianca, dai dazi potrebbero essere incassati 600 miliardi.
Ma le aziende americane si sono fatte sentire, hanno fatto presente le loro perplessità spiegando quali potrebbero essere le controindicazioni dei dazi?
Ci ha pensato il Wall Street Journal, una voce molto rappresentativa delle aziende: si è espresso in maniera contraria ai dazi proprio per i problemi che possono creare alle imprese e all’economia in generale. L’altro argine è la Borsa: ogni volta che Trump parla di dazi c’è un crollo dei mercati, che hanno già perso un bel po’ in questo periodo di presidenza. Se l’argine non tiene e ci sarà un tracollo, qualcosa il presidente dovrà fare. D’altra parte, ci ha abituati anche a virate improvvise, a cambi di rotta; il suo pregio (e il suo difetto) è di essere molto pragmatico: alla fine va dove gli conviene. Non per niente, nelle trattative per l’Ucraina prima ha dichiarato che praticamente era tutto fatto, poi ha cominciato a dire che è deluso da Putin.
Il nervosismo delle aziende americane dipende anche dall’incertezza della sua linea?
L’idea di Trump, anche attraverso i dazi, è di aumentare la produzione in America. Così è successo con il Messico, dove le aziende hanno riportato subito le attività produttive negli Stati Uniti. Ma i problemi da affrontare sono anche altri: le imprese petrolifere, ad esempio, temono un’eccessiva discesa dei prezzi del petrolio, visto che quelli americani sono già relativamente bassi. Il business deve restare profittevole: se calano i prezzi alla pompa, è anche vero che diminuiscono gli investimenti delle aziende. Insomma, quella di Trump è un po’ una scommessa, con molti rischi; per questo c’è nervosismo tra aziende e consumatori.
Ci sono segnali evidenti di questo nervosismo?
Uno è arrivato dal Wisconsin, in occasione dell’elezione di un giudice della Corte Suprema dello Stato. Una campagna per cui è stata spesa una cifra folle se rapportata a un’elezione di questo tipo. La rappresentante democratica Susan Crawford ha vinto dopo una campagna totalmente politica, trasformata in un referendum su Trump e Musk. Un piccolo segnale, anche se poi in Florida le elezioni per un seggio rimasto vacante sono andate ai repubblicani. Tuttavia, c’è anche qualche sondaggio che indica un lieve calo dei consensi per Trump.
Gli appelli alla moderazione a Trump vengono anche dalle aziende che lo hanno sostenuto durante la campagna elettorale per le presidenziali?
Un po’ da tutto il sistema economico americano, per la verità, perché in realtà la guerra commerciale non fa bene a nessuno. Secondo me Trump vuole “puntare la pistola alla testa” degli altri Paesi per andare a trattare. Il problema è che questo metodo non sempre funziona, perché la situazione può sfuggire di mano. Molti componenti auto di compagnie americane, come GM o Ford, vengono importati dall’Europa: con i dazi, quindi, saliranno anche i prezzi delle auto made in USA. E questo è un problema, perché l’automobile e la benzina, negli USA, sono due beni come per noi la casa. Politicamente, chi tassa la casa in Italia è morto. Le industrie automobilistiche hanno fatto presente che aumenteranno anche i costi per loro, e ci sono analisi che segnalano una crescita di 3-4mila dollari a vettura.
Alla luce di tutte queste possibili conseguenze, Trump potrebbe anche cambiare direzione?
I dazi a Canada e Messico sono stati associati alla possibilità di negoziare accordi diversi. Tant’è che Trump ha mandato messaggi anche contraddittori: “Imporremo tariffe, ma saremo gentili: mi sentirei imbarazzato a imporre tariffe alte come quelle che l’Europa applica nei nostri confronti”. In una dichiarazione si era fatto anche scappare che il Paese sarebbe andato in recessione, rimangiandosela subito dopo per non far crollare i mercati finanziari. La realtà è che siamo in una fase di test, di scommessa; poi ci sarà la seconda metà dell’anno in cui, invece, Trump, secondo me, avvierà una serie di politiche di stimolo, perché per ora sta facendo solo tagli.
(Paolo Rossetti)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
