Laura Santi, suicidio assistito a Perugia. 75% italiani pro eutanasia. Dolore e dignità: serve una comunità che accompagni, non leggi per morire.
“La vita è degna di essere vissuta, se uno lo vuole, anche fino a 100 anni e nelle condizioni più feroci, ma dobbiamo essere noi che viviamo questa sofferenza estrema a decidere e nessun altro”. Con queste parole, Laura Santi ha lasciato la vita terrena, scegliendo il suicidio assistito nella sua casa a Perugia. La sua storia ha riacceso il dibattito su un tema che ritorna periodicamente a bussare alla coscienza collettiva, come una domanda inquieta a cui la politica, spesso, preferisce sottrarsi: l’eutanasia. Il sondaggio pubblicato da La Stampa il 21 luglio 2025 mostra che il 75,3% degli italiani è favorevole alla legalizzazione dell’eutanasia, mentre il 65% chiede un referendum nazionale.
Si tratta di una domanda culturale e spirituale profonda, che attraversa la crisi delle istituzioni, della medicina e del senso stesso della sofferenza. Ma se vogliamo affrontare questa domanda in modo serio e non ideologico, non possiamo restare intrappolati nel lessico dei diritti, né rifugiarci nel linguaggio dei divieti.
Il cuore del problema non è se sia lecito o no togliersi la vita in condizioni estreme, ma se la vita – tutta la vita, anche quella più fragile, mutilata o straziata – abbia un senso. Laura ha vissuto una sofferenza che solo lei poteva comprendere fino in fondo, ma la domanda che il suo gesto solleva è: siamo noi, davvero, i padroni del dolore? O c’è qualcosa nel dolore che ci supera, che chiede di essere ascoltato e non eliminato?
Il dolore, come scriveva Simone Weil, “è lo spazio in cui Dio entra nel mondo”. Non per consolarci con una presenza esterna, ma per condividere con noi il peso del male. La sofferenza estrema, come la fragilità, non chiede una soluzione: chiede un senso. Molti difensori dell’eutanasia parlano di “morte dignitosa”, come se la dignità fosse qualcosa che dipende dalle condizioni del corpo o dalla capacità di decidere. Ma la dignità umana non è una prestazione: è un dato. In una pagina fulminante di Tutto scorre, Vasilij Grossman scrive: “La bontà è più profonda del male”. E aggiunge: “Nella più abietta delle vite, nella più atroce delle sofferenze, l’uomo conserva qualcosa di intatto, di non negoziabile: il volto”.
Per questo l’eutanasia, anche se motivata da compassione, rischia di diventare una scorciatoia che non libera ma isola. Il dolore, infatti, è insopportabile quando è abbandonato. Ma quando è condiviso, accolto, accompagnato, può diventare una ferita che unisce, una lotta che rivela.
Dire no all’eutanasia non significa difendere un principio astratto o religioso, ma custodire una visione spirituale dell’esistenza. Significa dire che non tutto ci appartiene, che c’è qualcosa che ci eccede e ci costituisce. Come scrive Etty Hillesum dal campo di Westerbork, poco prima di morire ad Auschwitz: “Non si può pretendere di cambiare la realtà del dolore, ma si può decidere di non lasciare che ci svuoti”.
La spiritualità non ci chiede di tollerare la sofferenza, ma di attraversarla come un passaggio, non come una condanna. È in questo attraversamento che l’umano si fa tale. Il 72% degli italiani vorrebbe la non punibilità per chi aiuta il suicidio assistito. Ma questa volontà nasce spesso da una percezione di solitudine: si teme che la medicina prolunghi il dolore senza senso, si ha paura di restare soli in una stanza sterile, senza voce né volto. Ma una società giusta non offre la via più veloce per morire: offre la possibilità di non essere lasciati soli. Le cure palliative, l’hospice, il tempo condiviso: sono questi i nomi della dignità.
La Chiesa non ha il monopolio della compassione. Ma porta un annuncio: che la vita è degna anche quando sembra inutile, che nessuno è solo, nemmeno nel punto più basso della sua parabola. La morte di Laura Santi non può essere ridotta a uno slogan. È un grido che ci interroga. Ma la risposta non può essere una legge che normalizza il suicidio. La risposta deve essere una comunità che si fa prossima, che costruisce presìdi di senso, che ascolta il dolore invece di zittirlo. Come scrive Levinas, “la sofferenza dell’altro è un appello al mio esserci”.
È in questo esserci che si gioca la vera rivoluzione spirituale. Non si è contrari all’eutanasia perché si ha paura della libertà. Al contrario: perché si crede in una libertà più profonda, che non si gioca nella possibilità di smettere, ma nella possibilità di amare fino alla fine. Abbiamo bisogno di una nuova grammatica del vivere, non di nuove tecniche del morire. Abbiamo bisogno di comunità che accompagnino, di sguardi che restino, di una civiltà che non ceda alla scorciatoia dell’eliminazione del dolore, ma sappia trasformarlo in luogo di comunione e di speranza. Abbiamo bisogno, in una parola, di tornare umani. Fino alla fine.
