Includere nelle realtà lavorative le persone con disabilità può portare a significativi vantaggi anche per le imprese coinvolte
Da almeno due anni il mercato del lavoro in Italia tira: le imprese cercano, le posizioni aperte crescono. Eppure ci sono ancora troppe domande che restano inevase. In tanti si chiedono: perché non si trovano candidati? Perché le persone valide vanno via? Perché chi è in difficoltà fa fatica a entrare nel mondo del lavoro?
Negli ultimi articoli abbiamo provato a raccontare cosa accade nel lavoro quotidiano, domanda e offerta, attrarre chi è all’estero, trattenere i profili motivati. Ma c’è una strada parallela, molto concreta, che merita attenzione: quella delle esperienze che includono nel lavoro anche le persone con disabilità. Non per buonismo, ma per intelligenza e visione, anche imprenditoriale. Perché funzionano.
È una piccola miniera ancora troppo poco esplorata. Eppure sempre più esperienze ci dicono che non solo si può fare, ma si può fare bene.
Chiunque abbia lavorato in azienda si sarà chiesto almeno una volta: Ma come si fa a far lavorare chi ha difficoltà cognitive o relazionali? Chi garantisce la qualità? E se c’è un problema, chi lo gestisce? Il collega non è formato per questo ruolo…
Sono domande giuste. Eppure ci sono realtà che stanno dando risposte vere, guardando la realtà per com’è, senza slogan. Non è facile, certo. Ma abbiamo fatto cose che sembravano impensabili: abbiamo ridotto il buco dell’ozono, abbiamo convinto intere generazioni a indossare scarpe antinfortunistiche (che oggi sono persino “fashion”). Abbiamo smesso di fumare nei locali pubblici…
Non ci serve una rivoluzione: ci serve guardare il potenziale di ciascuna persona, e prendere sul serio ogni posto di lavoro, ridisegnandolo se serve.
C’è stato, da poco, a Bassano del Grappa, il Concertozzo organizzato da Elio e le Storie Tese, da sempre attenti al tema dell’autismo. È un evento musicale, ma anche una vetrina di esperienze concrete: al catering hanno pensato, realtà come PizzAut, Il Tortellante, Luna Blu, SbrisolAut, Rurabilandia, che dimostrano che il lavoro – anche nella ristorazione, anche con ritmi intensi – può includere chi ha una disabilità. Basta organizzarsi.
Di realtà ne esistono tante. Ne racconto tre: una che conosco bene da anni, Cometa di Como; una che ho incontrato da poco, Desiderio di Barbiana a Civita Castellana; e una che sarà presente al Meeting di Rimini, Rossa Sera di Alcamo.
1) Cometa (Como): il lavoro che educa
Cometa è una realtà educativa nata più di venticinque anni fa. Oggi ha messo in piedi un piccolo ecosistema che include accoglienza, formazione, impresa e inclusione lavorativa. E funziona.
– Il Pane di Sandro: una panetteria artigianale nata durante il lockdown, dove i ragazzi con fragilità lavorano affiancati da professionisti. Si occupano di impasti, vendita, cassa. È una bottega vera, con clienti veri.
– Spazio Anagramma: bistrot a Cernobbio, dove i giovani imparano a stare in sala, a gestire il servizio, a preparare caffè e piatti veloci.
– IN·STORE (Grandate): outlet aperto nel 2023 in collaborazione con Calzedonia/Intimissimi. I ragazzi con disabilità sono inseriti nel flusso normale di negozio: magazzino, scaffali, gestione clienti. Affiancati da tutor, ma parte integrante del team. Il negozio ha gli stessi standard degli altri.
– for&from (Como centro): negozio nato in collaborazione con Inditex/Zara, parte di un programma internazionale. In Italia è stato il primo: 270 m², 12 persone con disabilità inserite stabilmente.
Il segreto? Semplificare i processi, dividere le mansioni in passaggi chiari, misurare i risultati. E accettare che “ognuno ha i suoi tempi” e che non si è soli.
Queste opere – in modo diverso – sono ormai conosciute, muovono solidarietà, raccolgono fondi, attraggono volontari, in crescita. Ma forse dovremmo iniziare a tifare per la normalità.
I ragazzi di Cometa, per esempio, hanno parlato alle Nazioni Unite. Hanno raccontato con una chiarezza disarmante una quotidianità che per loro è già possibile: lavoro, relazioni, crescita. Una normalità che però oggi è ancora straordinaria.
2) Desiderio di Barbiana (Civita Castellana): il lavoro come comunità
In provincia di Roma e nella Diocesi di Civita Castellana che è “parte in causa del progetto”, nella cornice dell’ex convento di Sant’Antimo a Nazzano, è nata la cooperativa Desiderio di Barbiana, grazie alla disponibilità della diocesi e al lavoro instancabile dell’equipe guidata da Manuele Cicuti.
Il progetto unisce tre dimensioni: comunità diurna e residenziale per ragazzi autistici; attività agricole e artigianali (incluso un birrificio); un ristorante con cucina di qualità.
L’idea è chiara: non creare bolle separate, ma far convivere fragilità e impresa, generando lavoro vero.
Durante un convegno a cui ho partecipato, ho potuto toccare con mano la cura con cui questo percorso è pensato. Le famiglie sono coinvolte, gli operatori lavorano in rete, il progetto ha un impianto economico. Non è un favore, è un investimento. E anche qui, si parte da una certezza: ognuno ha un talento, e il lavoro è una via per farlo emergere.
3) Rossa Sera (Alcamo): dalla Sicilia al Meeting di Rimini
A chiudere, una storia che sarà protagonista a fine agosto al Meeting dell’Amicizia tra i Popoli (Rimini, 20-25 agosto). La Cooperativa sociale Rossa Sera, nata nel 2016 ad Alcamo (TP), è un’impresa agricola e ristorativa che dà lavoro a persone con disabilità psichica. Coltivano ortaggi, trasformano prodotti, gestiscono servizi di catering.
A Rimini porteranno il “Bar d’Alcamo”, uno dei punti ristoro ufficiali del Meeting. Un modo semplice e concreto per incontrarli di persona, vedere come lavorano, parlare con chi ha scelto questa strada non facile, ma necessaria.
Allora si può fare? Sì, ma non da soli. Serve metodo, pazienza, qualche investimento iniziale. Ma le ricadute sono molte: si risponde a un bisogno sociale concreto; si rende più umano e coeso il proprio ambiente di lavoro; si accede a strumenti e fondi (es. PNRR, 4.0, bandi sociali); si costruisce una reputazione aziendale vera.
E poi, spesso, si scoprono risorse dove non le si era viste: persone che, con il giusto accompagnamento, danno molto più di quello che si immagina.
Il successo di queste esperienze è evidente, ma non basta che restino isole belle e frequentabili. Il vero salto culturale è quando non ci sarà più bisogno di raccontarle, perché saranno parte del normale paesaggio del lavoro.
Non ci serve commuoverci ogni volta. Serve assumere, integrare, accompagnare. Serve che le aziende capiscano che conviene e che non sono sole, perché queste realtà sono disponibili a coinvolgersi e possono insegnare a capire e “a fare sul serio”.
La vera sfida è passare dall’ammirazione all’imitazione e alla corresponsabilità. Perché il lavoro, quando è per tutti, non cambia solo chi lavora: cambia anche chi guarda e il mondo che ci circonda.
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