Nella sua ultima rilevazione, diffusa nell’aprile scorso e relativa agli ultimi tre mesi del 2010, l’Istat segnalava, per la prima volta dal quarto trimestre 2008, una variazione tendenziale positiva degli occupati, sia pure solo dell’0,1%, pari a 14.000 unità.
A questo dato, tuttavia, si accompagna una serie di note dolenti: continua, infatti, il calo dell’occupazione italiana – l’aumento riguarda dunque lavoratori stranieri -, si riduce quella nell’industria in senso stretto, diminuiscono sia gli occupati a tempo pieno sia con contratto a tempo indeterminato, mentre cresce il numero dei lavoratori a termine; aumenta ancora, anche se di poco, il tasso di disoccupazione per gli uomini ed è particolarmente drammatica la situazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni, con tassi che sfiorano il 30% a livello nazionale, con punte del 42,4% per le donne nel Mezzogiorno.
I numeri, per quanto grandi, possono ancore risultare un po’ asettici, ma se si ha occasione di ascoltare i radiogiornali regionali o leggere i giornali locali la drammaticità della situazione si impone in tutta la sua concretezza, per lo stillicidio di notizie su aziende piccole o medio piccole che chiudono o riducono il personale. Per altro verso, più volte i media hanno segnalato l’esistenza di una quota consistente di offerta di lavoro snobbata dai disoccupati italiani, fatto, questo, che giustamente solleva interrogativi e anche suscita indignazione.
Su tutto ciò, sulle ragioni di questa situazione, sui suoi nodi culturali, politici, economici, infrastrutturali, sulle prospettive di intervento e le risposte da approntare molto si è discusso, anche dalle pagine di questo giornale. Minore è stato il dibattito in sede giuridica – forse perché la vicenda Fiat e la crisi del sistema di relazioni industriali hanno monopolizzato l’attenzione -, polarizzato intorno a temi, sostanzialmente due, di politica del diritto: l’uno, la riforma del contratto di apprendistato (di cui hanno parlato in precedenza gli articoli di Emmanuele Massagli e Carlo Alberto Nicolini), tocca una delle maggiori criticità del nostro mercato del lavoro; l’altro tema, del cosiddetto “contratto unico” (di cui ha parlato Pietro Ichino nella sua intervista), si propone come una riforma capace di rimuovere alla radice il gap tra chi è dentro quel mercato – i lavoratori a tempo indeterminato – e chi cerca di entrarvi – principalmente i giovani inoccupati – o ne ha varcato i confini in forma non stabile – lavoratori a termine, a progetto, somministrati ecc. -, attraverso un radicale cambiamento degli strumenti contrattuali di accesso al lavoro. Ma si tratta, al di là di ogni valutazione sul merito, di proposta attualmente confinata nell’ambito del confronto politico-culturale, priva di prospettive concrete.
Oltre questi temi, e prima di essi, per gli spazi di operatività che potrebbero utilmente e in tempi brevi essere attivati, conviene, più prosaicamente, riportare l’attenzione sul nostro mercato del lavoro, inteso come sistema di incontro tra domanda e offerta, per evidenziarne una carenza “strutturale”, pur se dipendente da scelte politiche delle regioni di per sé reversibili, ma soprattutto per segnalare la differente prospettiva offerta dall’esperienza lombarda.
Va premesso, tuttavia, che il nostro Paese sconta un’arretratezza culturale e un’inefficienza del sistema di servizi per l’impiego che ancora si alimentano al retaggio del passato prossimo della nostra legislazione. Infatti, dal dopoguerra alla fine del secolo scorso, il sistema di “collocamento”, come veniva chiamato, era considerato una funzione pubblica e, come tale, gestito in regime di monopolio dallo Stato. Svariate e di peso furono le ragioni che indussero il legislatore del 1949 a una simile scelta: la consapevolezza, esplicitata nel principio fondativo dell’Organizzazione internazionale del lavoro, che il “lavoro non è una merce”, per l’inevitabile implicazione della persona in tutte le sue dimensioni, fisiche, psichiche, morali, nella prestazione di lavoro; il conseguente divieto, sancito da normative internazionali, di forme di intermediazione – tipico il fenomeno del caporalato – che, lucrando sul bisogno di lavoro, si risolvessero in uno sfruttamento indebito dei lavoratori; la volontà di ripartire equamente tra tutti i disoccupati le scarse offerte di lavoro all’epoca esistenti; l’omogeneità delle professionalità richieste, data la struttura “elementare” dei sistemi di produzione.
Pertanto, il sistema pubblico si strutturò intorno ad alcuni capisaldi: l’obbligatorietà della mediazione pubblica per l’assunzione di inoccupati e disoccupati; la libertà di passaggio diretto da un’occupazione a un’altra per chi è già assunto; il divieto per il datore di lavoro di scegliere liberamente il lavoratore da assumere, individuato, invece, dall’ufficio di collocamento sulla base di una richiesta del datore stesso, limitata al numero e ai requisiti professionali dei lavoratori. Tutto ciò ha improntato il sistema di collocamento in termini di attività burocratica, ove a prevalere era la gestione dei procedimenti amministrativi a scapito del risultato atteso; totalmente assente era, in particolare, qualsiasi dimensione attiva di promozione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Per dire del totale fallimento di questo sistema basti ricordare come, già nel 1979, Gino Giugni, illustre giuslavorista, padre dello Statuto dei lavoratori, ebbe ad affermare che “parlare di riforma del collocamento significa cercare di rianimare un cadavere e credo che questa sia una linea completamente sbagliata”. Eppure, ancora nel 1986, la Corte Costituzionale confermava la corrispondenza alla Costituzione del monopolio pubblico del collocamento per la necessità di evitare “l’esercizio della mediazione privata e il danno che ne subirebbero i lavoratori inevitabilmente assoggettati a un indebito sfruttamento”.
Su queste basi culturali, in effetti, secondo una logica schizofrenica non isolata nella legislazione del lavoro, il principio del monopolio pubblico ha continuato a reggere il sistema fino all’apertura del XXI secolo, mentre i suoi capisaldi strutturali venivano svuotati di effettività attraverso la previsione di molteplici deroghe normative al principio della chiamata numerica, fino al riconoscimento, nel 1991, della libertà di scelta del lavoratore da assumere.
Ora, non più vigente questa disciplina, ne resta tuttavia viva la logica pubblicistica, che continua a informare sia le scelte legislative e di politica del lavoro delle Regioni, sia la concezione del servizio e dell’attività dei servizi pubblici, pur se in modo difforme a livello territoriale. È questa logica che ha finora impedito la realizzazione di una sistematica azione sinergica tra gli operatori pubblici e privati del mercato del lavoro, determinando, per contro, la creazione di due canali paralleli e sostanzialmente alternativi nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro.
In generale, e tanto più nell’attuale contesto occupazionale, questa dicotomia costituisce un indubbio vulnus alle aspettative di che cerca lavoro. E si tratta di una scelta imputabile alle Regioni, avendo la legislazione nazionale prefigurato, nella legge Biagi, un sistema collaborativo e definito gli strumenti per attuarlo, tra cui l’accreditamento che consentirebbe alle stesse di concedere a operatori privati di svolgere funzioni ed erogare prestazioni “pubbliche”, immettendo, dunque, momenti concorrenziali con i soggetti pubblici e favorendo la libertà di scelta dell’utente, utili a stimolare la crescita di efficacia del complessivo sistema.
Ed è questa quella carenza strutturale di cui si parlava, la struttura dicotomica del mercato del lavoro. Infatti, non sono molte le regioni che hanno disciplinato per legge l’accreditamento e sempre considerando l’intervento dei privati eventuale e subalterno al pubblico. Una scelta differente ha fatto la legge regionale della Lombardia n. 22 del 2006, quando ha posto “la libera scelta dei lavoratori attraverso un sistema di servizi per il lavoro costituito da operatori pubblici e privati accreditati o autorizzati” quale finalità da garantire e principio ordinatore del mercato regionale del lavoro.
A tal fine la legge ha parificato gli operatori pubblici e privati accreditati, così consentendo l’attivazione di politiche del lavoro innovative come la Dote lavoro, che realizza la “libertà di scelta” attraverso l’assegnazione diretta all’utente di risorse da utilizzare presso i soggetti accreditati dal sistema regionale, per l’erogazione di servizi per il lavoro o formativi. Senza entrare nei dettagli, quali sono gli elementi di novità rilevabili dalla sperimentazione della Dote?
Innanzitutto, porre l’accento sulla “libertà di scelta” significa considerare la persona in cerca di lavoro, come soggetto attivo e protagonista della risposta al proprio bisogno. Il che rivela l’artificiosità di tanto dibattito sul rapporto pubblico-privato o sulla sussidiarietà: infatti, se tutta la questione si riduce allo spazio da riconoscere all’uno piuttosto che all’altro, l’utente, la persona, resta nella posizione di oggetto dell’intervento. Senza dimenticare, comunque, che non ogni persona è di per sé in grado di scegliere e altresì che esistono asimmetrie informative, circostanze che richiedono all’amministrazione pubblica di assumersi compiti e responsabilità nuovi, ma non di minor rilevanza dell’erogazione diretta del servizio.
Questo accenno sposta l’attenzione sulle istituzioni pubbliche. Diversamente da come si è soliti pensare, se è ipotizzabile, ma non certa, una riduzione della funzione di erogazione di servizi e/o prestazioni non si verifica in alcun modo una perdita di centralità del soggetto pubblico. L’esperienza lombarda di questi anni dimostra, anzi, che l’implementazione di politiche sussidiarie richiede, innanzitutto, un forte centro decisionale, di direzione politica e coordinamento, proprio perché si tratta di attuare un principio innovativo che altera schemi di gestione della cosa pubblica e assetti di potere consolidati.
Ma a mutare sono anche le funzioni dell’amministrazione pubblica, che si spostano sul terreno della determinazione dei livelli e degli standard dei servizi e delle prestazioni, dei criteri e requisiti di accreditamento, del controllo degli operatori, della trasparenza, del corretto funzionamento e, soprattutto, della valutazione di efficacia del sistema, nonché di applicazione delle sanzioni. È in particolare sul piano della valutazione che si gioca la credibilità dell’esperienza lombarda, ché il suo carattere paradigmatico rappresenta il banco di prova cui guarda chi teme che l’apertura ai privati possa determinare un uso improprio delle risorse pubbliche e una riduzione delle tutele di welfare. Da questo punto di vista si attende di conoscere gli esiti della prima sperimentazione della Dote.
Infine, nella prospettiva degli operatori, con l’attribuzione della dote all’utente viene meno la possibilità di una programmazione degli interventi calibrata più in funzione delle risorse rese disponibili che delle effettive esigenze del sistema produttivo. Non avendo più preventiva certezza sulle risorse, gli operatori dovrebbero essere indotti ad adeguare il servizio ai bisogni della persona. In concreto si è assistito a una selezione (e riduzione) degli accreditati, mentre l’accentuazione della dimensione competitiva è temperata dalla direttiva dell’integrazione, che impone agli stessi di adottare logiche e comportamenti collaborativi, perché ciascun accreditato deve garantire all’utente l’erogazione dell’intera filiera di servizi e prestazioni concordate.
D’altra parte, quasi tre anni fa, la crisi finanziaria ed economica ha indotto Governo, Regioni e parti sociali a unire energie e risorse per fronteggiare l’impennata della disoccupazione, creando un sistema di “ammortizzatori in deroga” che coniuga gli interventi e le risorse pubbliche con quelli privati. In questo contesto, alcune regioni e province sono state perfino costrette a ricorrere agli operatori privati per garantire l’erogazione dei servizi al lavoro previsti da quel sistema.
Eppure, nonostante i numeri dei disoccupati, nonostante l’inadeguatezza dei servizi (soggettivamente) pubblici, nonostante le sperimentazioni avviate, non sembra destinato ad avviarsi un cambio di registro nelle legislazioni e nelle politiche regionali per il lavoro.
Di cosa hanno paura le Regioni?