Gli ultimi dati Istat sul secondo trimestre 2012 confermano che la crisi non è ancora finita, e che anzi sul fronte dell’occupazione crescono problemi e difficoltà. Sono crollati del 20%, negli ultimi cinque anni, gli occupati al di sotto dei 35 anni di età. In valore assoluto, nel secondo trimestre di quest’anno i lavoratori tra 15 e 34 anni sono scesi a 5.876.000 unità, mentre erano 7.333.000 unità nello stesso periodo del 2007. Sono dati che confermano gli andamenti negativi dell’occupazione nel nostro Paese che sembra sempre meno capace di affrontare il problema, soprattutto per quanto riguarda i giovani.
Proprio oggi in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera il ministro Elsa Fornero in un passaggio sottolinea come uno dei problemi fondamentali dei giovani oggi sia rappresentato dal precariato, cioè da contratti di lavoro brevi e ripetuti che minacciano lo sviluppo dei giovani e non contribuiscono alla crescita della produttività delle imprese. Tale problema è stato affrontato, sostiene il ministro, nella riforma del lavoro da poco attuata, attraverso diversi interventi normativi che rendono “più difficile” l’attuazione di contratti temporanei. Il tema fondamentale, sostiene ancora il ministro, è puntare sull’occupabilità dei giovani, ottenibile con un lavoro stabile e di qualità.
Affermazioni certamente condivisibili, ma come sono attuabili nel contesto odierno? Quale è il percorso che le renderà possibili? Non si rischia, nel ritornare sul concetto di stabilità, se mal interpretato, di riproporre un’idea di lavoro basata su un “posto” (il lavoro stabile dei nostri padri che vedevano la loro carriera in una azienda che li accompagnava fino alla pensione) che oggi non esiste più?
I giovani non sono tutti uguali. È infatti diverso parlare di giovanissimi, che abbandonano la scuola e non hanno alcuna occupazione, di diplomati (periti, geometri, ragionieri…) che cercano il primo impiego, e di laureati. Per quanto riguarda i giovanissimi, il tema è certamente riconducibile all’abbandono sostanziale, nel nostro paese, delle politiche di integrazione tra scuola e lavoro che solo negli ultimi anni hanno riavuto spazio grazie agli interventi e ai risultati positivi ottenuti da iniziative di enti che hanno saputo creare risposte a un problema “sociale” e “culturale”, proseguendo una tradizione che aveva dato molti frutti. Il sostegno e lo sviluppo di tali iniziative non trova sostanziale rafforzamento nella riforma Fornero e più in generale nelle politiche del governo Monti.
Per i diplomati la difficoltà sostanziale è certamente riconducibile (in prevalenza) alle carenze del sistema formativo degli istituti tecnici e della formazione professionale che, sull’onda della liceizzazione, hanno perso il loro legame con le aziende, sono stati trattati come scuole di serie B, ed hanno perso la capacita di formare competenze adeguate alle esigenze delle imprese.
Certamente l’apprendistato rappresenta un percorso di inserimento privilegiato per questi giovani e la riforma è intervenuta su questo aspetto. Purtroppo però non ha reso più semplice l’attivazione di tale contratto, essendo state inserite regole che rischiano di renderne più difficile l’utilizzo soprattutto per le piccole e medie aziende (le realtà che maggiormente creano occupazione nel nostro Paese).
Per i giovani laureati le opportunità di lavoro sono migliori se si tratta di laureati in aree tecniche e scientifiche, molto più difficili se di aree umanistiche e sociali. Le opportunità di ingresso sono prevalentemente temporanee sia in Italia che all’estero, ma i dati dimostrano che nell’arco di 2/3 anni con il crescere della professionalità e nel mercato privato il percorso di lavoro si sviluppa con sostanziale linearità. Non è così per il pubblico impiego, sostanzialmente bloccato per i giovani e capace solo di creare la vera precarietà (lavori che spesso non aiutano a sviluppare percorsi di responsabilità e professionalità). Anche in questo caso la riforma non interviene esplicitamente, lasciando sostanzialmente aperta la strada dell’apprendistato (vedi sopra… e solo nel privato) e “irrigidendo” i contratti a tempo determinato, con il rischio che aumentino le difficoltà di ingresso dei giovani.
Non secondario e profondamente radicato è anche il divario territoriale, che sostanzialmente fa sì che oggi le scarse opportunità lavorative siano concentrate nel Nord del Paese, fattore che costringe i giovani alla fuga dal Sud.
Si può fare una riforma del lavoro senza legare alla stessa reali politiche di sviluppo e crescita? Quali investimenti sono finalizzati al sostegno di un lavoro “buono” come dice il ministro? Ad oggi non ci sono strade chiare e definite, solo qualche accenno, molti dibattiti ma pochi fatti.
In questo scenario, dove sembra abbattersi il rischio di abbandonare la speranza nel futuro, stanno accadendo fatti che rimettono in gioco l’iniziativa personale e sociale di molte persone. Nella recente mostra del Meeting di Rimini, intitolata “L’imprevedibile istante. Giovani per la crescita” sono documentate esperienze di giovanissimi – diplomati, laureati, insegnanti, imprenditori – che nella crisi, attraversando le circostanze di ogni giorno, hanno riscoperto il loro desiderio di bellezza, di verità e generato tentativi nuovi, positivi per sé e per altri. Sono queste esperienze che, se osservate con attenzione, possono diventare il punto con cui ri-giudicare le politiche di intervento del nostro Paese, certi, come dice la frase finale del volume pubblicato in occasione della mostra del Meeting di Rimini, che «la persona che vive fino in fondo la sua natura non da sola è la più grande risorsa del nostro Paese: una risorsa più grande della crisi, di questa crisi; soprattutto in chi è giovane, può essere il fattore di nuova crescita, di nuovo sviluppo».