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Home » Lavoro » Giovani, Famiglia e Lavoro » FORNERO/ Togliere agli anziani per dare ai giovani? Non funziona

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FORNERO/ Togliere agli anziani per dare ai giovani? Non funziona

Emmanuele Massagli
Pubblicato 7 Settembre 2012
scuola_universita_studentiR400

Immagine di archivio

Le idee del ministro Fornero per le nuove retribuzioni salariali. Per EMMANUELE MASSAGLI siamo davanti a un "Robin Hood generazionale": togliere agli anziani per dare ai giovani

La ripetuta dichiarazione del Ministro Fornero sull’importanza di studiare meccanismi di retribuzione che leghino, soprattutto per i lavoratori più anziani, il salario alla produttività merita qualche riflessione più pacata della (preventivabile) mole di improperi che hanno riempito le pagine internet nelle ultime ore. Dopo aver trattato il tema per la prima volta al Meeting di Rimini, secondo le indiscrezioni di stampa il ministro lo avrebbe ribadito qualche giorno fa svelando di stare effettivamente verificando soluzioni di questo genere. Invero non si tratta di un argomento molto originale. Da sempre gli economisti fanno notare come la curva degli stipendi in Italia sia tendenzialmente crescente negli anni. Al contrario, la curva della produttività del lavoro è fortemente crescente nei primi anni di vita lavorativa e continua a “salire”, seppur con diverse inclinazioni, fino a 45/50 anni, quando tende a decrescere. La mancata sovrapposizione delle due funzioni determina uno “spread” tra salario ricevuto e produttività del lavoro che, secondo la teoria, comporta basso incentivo alla produttività e spreco di risorse. In altre parole: i lavoratori giovani ricevono molto meno di quello che danno, mentre gli anziani di più (influenzando in negativo anche le nuove assunzioni). Ecco quindi la conseguente soluzione del regolatore pubblico in veste di Robin Hood generazionale: togliere agli anziani per dare ai giovani.


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Nella teoria i meccanismi funzionano, ma calati nella realtà pratica, e in quella italiana soprattutto, gli ingranaggi incominciano a bloccarsi. Invero le cose non stanno esattamente così neanche nella citatissima Germania, dove lo stesso ministro ha detto esserci un abbassamento dei salari dopo i 45 anni. Quel modello, comunque minoritario tra le imprese, è dovuto dalla lungimiranza degli accordi sindacali, più che dall’invasione della legge. Ad ogni modo sono diverse le ragioni che giustificano la diffidenza dei commentatori a questa proposta.


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La popolazione di cui si parla (i lavoratori over 50) è stata pesantemente colpita da una riforma delle pensioni che ne ha allungato l’aspettativa di vita lavorativa dai quattro anni in su. Questo intervento ha ribaltato i piani economici di molti cittadini e pesantemente confuso le politiche di gestione del personale di molte medie e grandi imprese (che nei prossimi anni vedranno aumentare sensibilmente l’età media dei propri dipendenti, senza poter assumere). Mettere in campo ora misure di contrazione del salario di questi stessi lavoratori vorrebbe dire deprimermene ancor più il morale e, di conseguenza, la produttività, che non è misura influenzata solo da fattori economici, ma anche di ambiente e personali. Per tacer del possibile malcontento sociale, che potrebbe avere manifestazioni anche plateali.


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In secondo luogo è bene non dimenticare che quei 1,5 milioni di giovani disoccupati di cui ogni mese ci parla l’Istat si reggono, economicamente, sulle spalle del reddito dei genitori. E’ evidente che una misura di contenimento dei salari degli over 50 non avrebbe effetti immediati sulle assunzioni di giovani. Di conseguenza coinciderebbe con ulteriore aggravio della loro condizione attuale.

Terzo aspetto. La produttività del lavoro non è scindibile da quella degli impianti, del capitale, dalla qualità del cosiddetto capitale umano, dai fattori tecnologici, dalla facilità all’accesso al credito, dalla semplicità normativa… Ovvero non si può considerarla fattore indipendente dall’efficienza del sistema-paese. Risolvere i ritardi cronici dell’Italia determinerebbe anche una crescita complessiva della produttività del lavoro. E’ questo, stando alle parole del premier Monti, il primo mandato dell’attuale Governo e ciò che più si aspetta da questi ultimi mesi di reggenza tecnica. In questo senso la riforma varata dallo stesso ministro Fornero non pare proprio andare in questa direzione, avendo, quantomeno per ora, più confuso che semplificato.

Ciò detto, il graduale inserimento di meccanismi di connessione tra aumenti salariali e andamento della produttività è tutt’altro che da disprezzare. Per tutti i lavoratori, non solo per i più esperti. 

Per essere concreti e operativi da subito basterebbe riattivare il premio di produttività consistente nella detassazione di quelle parti di salario legati ad incrementi di produzione che l’attuale Governo, per motivi di contenimento della spesa, ha ridimensionato. Quella misura (nella forma in vigore dal 2009 al 2011) è stata molto criticata proprio nel suo nucleo più interessante: la necessità di un accordo sindacale, aziendale o territoriale. Richiesta scomoda, ma importante, perché conscia che sono innanzi tutto le relazioni industriali (o, in altri termini, il rapporto tra lavoratori e datore di lavoro) capaci di concordare soluzioni condivise ed efficaci per sperimentare nuovi meccanismi retributivi senza mettere i lavoratori uno contro l’altro.


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