La Germania apre il dibattito sul sistema delle pensioni flessibili. Come scrive la Tageszeitung, “gli operai e i montatori di impalcature potrebbero beneficiare di una pensione piena a 58 anni, mentre tutti coloro che lavorano nel giornalismo o nelle università potrebbero lavorare fino a 72”. In Italia era già stato presentato un disegno di legge di questo tipo da parte degli onorevoli Pierpaolo Baretta, Cesare Damiano e Donata Lenzi. Ilsussidiario.net ha intervistato l’onorevole Baretta.
Il dibattito tedesco sulle pensioni può essere un modello per l’Italia?
Finora è l’Italia a rappresentare un modello, in quanto abbiamo attuato in anticipo la riforma delle pensioni. Ora però dobbiamo compiere un passo successivo, introducendo un sistema flessibile.
Per quale motivo ritiene che si debba andare in questa direzione?
Perché consentirebbe alla gestione personale o familiare un’auto-organizzazione della vita lavorativa e quindi anche di quella privata. La mia proposta è quella di creare una banda di oscillazione tra i 62/63 e i 70 anni, consentendo al singolo di decidere quando andarsene all’interno di questo range, pur mantenendo ferma ai 66 anni l’asticella della legge attuale. Per chi va via dopo, come prevede la legge, viene rivalutata la pensione, per chi va via prima c’è una penalizzazione.
Quali problemi si evitano in questo modo?
Questo sistema consente di evitare che si ripetano problemi come quello degli esodati o come uno strappo eccessivo tra i 62 e i 66 anni, ma soprattutto di avere un’idea innovativa dei rapporti tra famiglia e lavoro e tra pensione e lavoro. Questo sistema è quindi molto più civile che non l’uscita rigida. Peraltro siccome siamo a pieno titolo nel contributivo, la natura stessa di questo sistema comporta che io sia libero di decidere quando me ne vado. Il contributivo è infatti basato sul principio “tanto verso tanto prendo”.
Questo sistema flessibile sarebbe conciliabile con le esigenze di bilancio dello Stato?
Assolutamente sì, e rispetto al sistema rigido ci sono vantaggi economici importantissimi. Poiché nel sistema flessibile non cambio l’asticella dei 66 anni: chi va via prima prende meno di pensione, e quindi non si produce nessun aggravio del bilancio pubblico. Il sistema contributivo è come un conto corrente in cui verso durante la mia intera vita lavorativa. Il punto di equilibrio è dato a 66 anni, e quindi in base a quanti anni prima si va in pensione si riceve una somma inferiore. La legge attuale prevede già che chi si ritira dal lavoro oltre i 66 anni di età veda la sua pensione rivalutata: in pratica chi resta in più riceve un premio. Allo stesso modo occorre prevedere una “penalizzazione” per chi va prima in pensione, tenendo così i conti in equilibrio.
Occorre tenere conto del fatto che a seconda delle tipologie di lavoro svolto, le esigenze possono essere diverse?
La nostra proposta di legge risponde esattamente a questa esigenza. La flessibilità consente che sia il singolo a decidere quando va in pensione. Si possono poi studiare soluzioni per situazioni particolari, ma in linea generale con l’uscita flessibile si risolve a monte questo problema. Chi svolge un lavoro più stressante tenderà ad andare prima in pensione, e si può decidere che la penalizzazione di chi ha carichi di lavoro fisici sia inferiore a quella di chi non li ha. Ma anche un insegnante, pur non avendo carichi di lavoro fisici, negli ultimi anni se vuole andare in pensione dovrebbe essere aiutato in quanto svolge un lavoro molto stressante. In linea generale, la flessibilità consente una scelta legata alla propria condizione personale, non solo economica ma anche psicofisica.
(Pietro Vernizzi)