Nel pacchetto lavoro varato dal governo c’è un grande assente: l’intervento sul cuneo fiscale. Eppure della necessità di un consistente ritocco, in tempi brevi, sembra essere complessivamente convinta l’assortita maggioranza che sostiene il premier Letta, ma anche le ancor più eterogenee opposizioni. Il ministro Giovannini, a suo tempo, aveva rimandato all’autunno l’intervento, motivando la scelta con ragioni di copertura finanziaria. Ma in cosa consiste e a quanto ammonta il cuneo fiscale? La risposta al primo quesito è piuttosto semplice: si parla di cuneo fiscale in riferimento alla differenza tra il netto effettivo percepito dal lavoratore e quanto effettivamente pagato dal datore di lavoro.
La seconda risposta, invece, è più complessa: il cuneo, infatti, è un aggregato di varie voci, tra contributi di diversa natura (previdenziali, assicurativi e assistenziali) e imposte. È difficile quindi stabilire in astratto quanto pesi il cuneo fiscale sulla singola busta paga. Con un calcolo un po’ approssimativo, ma che rende l’idea, si può schematizzare che per ogni euro che entra nella disponibilità immediata del lavoratore, l’azienda paga quasi due euro e, in non pochi casi, qualcosina in più.
Altrettanto difficile è poi capire in che misura può essere tagliato il cuneo. Squinzi, presidente di Confindustria, non ha dubbi e chiede un taglio di dieci punti. Ponendo la questione come prioritaria rispetto a Imu e Iva, che tanto hanno animato il dibattito in seno alla maggioranza nelle ultime settimane. Certo sarebbe un taglio deciso, che da un lato renderebbe decisamente meno costoso il lavoro, dall’altro richiederebbe che il governo si produca in acrobazie politiche (ed economiche) per trovare la copertura e, trovata quella, per non perdere la maggioranza. Sarà naturalmente il tempo a verificare fattibilità e tenuta politica dell’intervento, ma la sensazione è che il tempo, vista la situazione occupazionale, sia una risorsa limitata.
Eppure un taglio, clandestino e sottotraccia, del cuneo fiscale in Italia c’è già stato. Riguarda una consistente fetta dei rapporti di lavoro instauratisi negli ultimi dieci anni. Senza toccare il tasto -dolente – del lavoro nero (dove per definizione cuneo fiscale, diritti e garanzie sono a zero), abbiamo assistito al dilagare di forme di collaborazione (co.co.co e poi co.co.pro.), finti rapporti libero-professionali, e altre espressioni di una “creatività elusiva” (pagamento con ritenute d’acconto, cessione di diritti d’autore, associazione in cooperative quantomeno dubbie, borse di studio, ecc.), che hanno il comune denominatore di costare molto meno all’azienda.
Se quei lavoratori svolgessero effettivamente le attività descritte nei loro contratti – occasionali, senza orari o caratteristiche di subordinazione – nulla quaestio, ma il più delle volte si tratta di prestazioni che hanno tutte le caratteristiche del lavoro subordinato; a parte la precarietà e una minore, quando non del tutto assente, contribuzione. In più, i soggetti interessati da questi contratti, hanno una scarsa crescita salariale, ricevono un investimento formativo da parte dell’azienda nullo o molto limitato, hanno enormi difficoltà nell’accesso al credito, restano anche mesi senza stipendio tra un rinnovo e l’altro (quanti contratti scadono in giugno-luglio per poi ricominciare, quando va bene, a settembre?), sono i primi a essere tagliati quando l’azienda non naviga in buone acque.
In attesa di un intervento sistemico sul cuneo fiscale si potrebbe partire da qui, dallo stabilizzare i lavoratori precari mantenendo, per un certo periodo, il costo aziendale dei loro contratti attuali. Nella speranza che, nel frattempo, le assunzioni costino meno. Non sarebbe una buona scelta solo per le politiche occupazionali: sarebbe una scelta di civiltà.