Si moltiplicano in tutto il mondo, anche nei paesi dove il tasso di disoccupazione è più contenuto, le riflessioni sul lavoro, sull’occupazione e su come riequilibrare il mercato del lavoro. Ovunque si analizzano alcune variabili dalle quali dipenderebbero gli alti tassi di disoccupazione: bassa crescita economica, incertezza giuridica e fiscale, scarsa formazione tecnica, mancanza di flessibilità del processo produttivo e nei contratti di lavoro, alto costo del lavoro, crisi globale, scarsa conoscenza delle lingue. Ma c’è una variabile di cui poco si discute: la tecnologia.
La domanda che ci si dovrebbe porre, infatti, è se l’informatica, la robotica e le nanotecnologie attuali, e sempre più utilizzate, giochino a favore o contro l’occupazione. Se la diffusione di nuovi strumenti tecnici possa davvero contribuire a far emergere nuove opportunità professionali. E se, una volta superata la crisi, l’incremento economico e finanziario sarà impiegato dagli imprenditori per investire in forza lavoro umana, o in tecnologia come sta accadendo perfino in Cina, dove il costo del lavoro è bassissimo.
Se fossero vere alcune recenti previsioni fornite dai maggiori istituti tecnologici, secondo cui le nuove tecnologie sono destinate ad assorbire nei prossimi dieci anni più del 40% degli attuali posti di lavoro, occorrerà iniziare a interrogarsi seriamente su come contrastare tale effetto.
Una possibilità, indicata da molti, potrebbe essere quella di utilizzare la tecnologia per far crescere la produzione, lasciando perciò invariata la forza lavoro occorrente per sostenere i livelli produttivi. Ma poiché i mercati di beni e servizi non possono espandersi all’infinito, la strada alternativa alla disoccupazione tecnologica potrà più probabilmente essere rappresentata dalla riduzione dell’orario di lavoro, osservabile in maniera graduale in tutta l’era industriale moderna, se si pensa che all’inizio del secolo scorso si lavorava per circa 3000 ore l’anno, a metà del secolo per circa 2500, e oggi la maggior parte dei lavoratori ha un orario medio annuo di non più di 1600-1700 ore.
Ebbene, interpretato in questi termini il fenomeno della tecnologizzazione del mercato si potrebbe addirittura tradurre in un vantaggio, non solo dal lato dell’industria ma anche dei lavoratori, in quanto, mantenendo invariati i livelli occupazionali, si otterrebbe una riduzione delle prestazioni richieste ai dipendenti. Il che peraltro si porrebbe in sintonia con le esigenze di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (work-life balance), sempre più sentite e attuali.
A ogni modo, è innegabile che la variabile “tecnologia” sul mondo del lavoro crei inevitabilmente dei conflitti sociali, in quanto dei vantaggi dell’avvento dell’hi-tech beneficiano i profili professionali più bassi – che di fatto non ne vengono quasi toccati – e una fascia alta di professionisti, lasciando fuori la cosiddetta classe media impiegatizia. E oggi effettivamente stiamo assistendo alla fase in cui rivoluzione digitale e internet hanno reso di fatto superflui se non inutili alcuni ruoli e mansioni. Basti pensare a quel che accade nel settore del e-commerce, delle banche e della finanza, del turismo.
Ma si sa, l’innovazione tecnologica, madre delle rivoluzioni industriali, produce sì benefici, ma sempre dopo una prima, lunga fase di sconvolgimenti sociali e culturali. E, dunque, le nuove opportunità professionali?
Arriveranno, ma, come suggeriscono alcuni attenti osservatori, occorrerà prima ripensare i sistemi educativi e formativi investendo sul potenziamento di quelle doti umane, di pensiero e di creatività, che i computer o i robot non potranno mai rimpiazzare. Favorendo così la necessaria trasformazione delle competenze e professionalità.
Senza dimenticare che un ruolo fondamentale verrà giocato dal potenziamento di nuove forme di lavoro, il cosiddetto smart working, che, in considerazione della tendenza sempre più diffusa alla digitalizzazione, prevede anche lo svolgimento di prestazioni professionali a distanza.