I dati divulgati nel corso delle ultime settimane hanno indicato il nostro Paese come la pecora nera della disoccupazione giovanile. In particolare i dati erano riferiti ai Neet, i ragazzi che risultano assenti sia in percorsi di studio che nella ricerca attiva di un posto di lavoro. Il dato europeo è in calo. Segnala che le politiche per il lavoro giovanile, il primo programma coordinato in tutti i paesi europei che ha finanziato Garanzia Giovani, ha dato risultati. Anche in Italia il dato è migliorato rispetto ai periodi precedenti, ma restiamo ultimi nella classifica complessiva.
La definizione di Neet è abbastanza ampia per farci dubitare della scientificità del dato numerico. In fondo alla fine di luglio, dopo la maturità, molti ragazzi che non proseguiranno gli studi e dedicheranno qualche mese a guardarsi attorno per capire cosa desiderano fare, sono oggettivamente Neet. Non per questo possono essere classificati come volontari che rifiutano di studiare o di lavorare. Il dato complessivo indica però la dimensione diversa, da Paese a Paese, del disagio giovanile.
L’area europea vede negli ultimi anni una ripresa decisa della crescita occupazionale. In alcuni paesi si è tornati ai livelli del 2008 o addirittura sopra. Anche in Italia l’occupazione aumenta costantemente da alcuni trimestri, anche se i livelli del 2008 sono raggiunti solo dalle regioni più industrializzate del nord. In ogni caso restano ampie differenze nella capacità dei sistemi paese di recuperare i tassi di occupazione necessari per ritenere superata l’emergenza.
All’interno del dato complessivo, in alcuni paesi, e l’Italia è fra questi, la disoccupazione e la “disaffezione” giovanile al lavoro si sono invece ampliate e vengono riassorbite con più difficoltà. Come si sa, le politiche del lavoro possono aiutare a fare funzionare meglio il mercato del lavoro, facilitano l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, e puntano a far sì che non vi siano posti scoperti per assenza di profili professionali adeguati. La creazione di posti di lavoro aggiuntivi è compito della politica economica e della capacità di sostenere un sentiero di crescita.
Pure in presenza di un periodo di scarsa crescita comune alle economie nazionali europee, gli andamenti occupazionali hanno avuto divari significativi. Da più parti si è cercato di individuare le best practices che hanno permesso di assicurare una maggiore occupazione pure in presenza di un andamento economico negativo. I paesi con migliori performances occupazionali hanno: investito molto nella crescita del capitale umano; sviluppato un sistema di alternanza scuola lavoro e una forte correlazione fra competenze professionali ed esigenze del settore produttivo; investito su un sistema di politiche attive riducendo la spesa per le politiche passive e favorendo percorsi di proattivazione delle persone disoccupate finalizzati a inserimenti lavorativi; investito molto sui servizi al lavoro con forme di collaborazione fra sistema pubblico e privato con riconoscimento economico a risultato; combattuto l’occupazione “informale” con l’introduzione di forme contrattuali specifiche; finanziato il sistema di formazione professionale solo se finalizzato all’occupazione (sistema di valutazione).
Come si vede si tratta, per quanto riguarda l’Italia, delle misure introdotte dal Jobs Act. E infatti è da dopo l’entrata in vigore delle nuove norme sul mercato del lavoro che anche da noi il trend occupazionale ha segnato un andamento positivo. Se però rimane un gap con gli altri paesi è certo per la lentezza e le indecisioni che hanno caratterizzato soprattutto le parti attuative legate ai servizi al lavoro e quelle rivolte in particolare ai giovani.
Non mi riferisco ai tentennamenti che caratterizzano il dibattito nel nostro Paese sulle norme del mercato del lavoro. Nel commento trimestrale ai dati del mercato del lavoro basta un meno 0,1% perché una pletora di commentatori (conservatori di destra e di sinistra) invochino il ritorno alle vecchie sane regole di un mercato del lavoro bloccato com’era il nostro prima delle riforme. Siamo invece in ritardo, sia nazionalmente sia nelle scelte autonome dei governi regionali, per avere un sistema funzionante di servizi al lavoro, pubblici e privati, che vedano la capacità di offrire percorsi di politiche attive per la ricollocazione con sistemi trasparenti di valutazione e pagamento dei servizi a risultato.
Per quanto poi attiene le politiche verso i giovani, il nodo della formazione professionale finalizzata all’occupazione, l’alternanza scuola-lavoro e la capacità di rapportare competenze professionali alle esigenze del sistema produttivo, abbiamo un forte ritardo. Si è scelta la strada giusta avviando una semplificazione del contratto di apprendistato per favorirlo come il principale per agevolare il lavoro giovanile di “qualità”. La prima sperimentazione del sistema duale (formazione+apprendistato in azienda) ha dato risultati molto positivi. La scarsa diffusione territoriale, colpa di un regionalismo che non guarda i risultati, penalizza però il sistema paese e ci consegna la maglia nera nella classifica dei Neet.
Un segnale positivo viene invece da una proposta di ripensamento del welfare per i giovani. Come si sa la vita lavorativa sarà sempre più spezzettata. Alla faccia dei risultati di sistema, i giovani, secondo una ricerca Censis, chiedono e credono che sia attraverso il lavoro che possano esercitare il loro ruolo sociale. La proposta di ripensare le forme pensionistiche per il futuro assicurando una pensione minima a chi avrà una vita di lavori spezzettati con forme contributive diverse, così da poter sommare come di risparmio personale, apre una nuova strada di riflessione.
La richiesta dei giovani intervistati dal Censis è per un lavoro di cittadinanza e non per un salario di cittadinanza. Ripensare il welfare e adeguarlo al lavoro di cittadinanza è la via giusta per accelerare tutte le politiche rivolte al futuro del lavoro.