La quarta rivoluzione industriale sta progressivamente trasformando le vecchie forme del lavoro. Per molti aspetti è un grande passo avanti. Saranno sempre di più le macchine a svolgere i lavori pericolosi e ripetitivi; e anche quelli noiosi e privi di gratificazione per chi li compie. Le vie dell’intelligenza artificiale non richiederanno tuttavia solo che si mantenga il primato dell’intelligenza delle persone, ma che si sviluppi il potere di governare il cambiamento. Ogni società che voglia sfruttare le opportunità del progresso non può cadere nell’illusione che sarà comunque la mano invisibile del mercato a far conquistare i più grandi obiettivi con il minimo costo.
Le ragioni sono molte. La dinamica della produzione tende sempre più a staccarsi da quella dell’occupazione. La creazione di valore è sempre più affidata alle dimensioni finanziarie e a quelle che derivano dalla moltiplicazione dell’informazione. La produzione dei redditi è sempre di più all’origine dell’allargamento delle disuguaglianze con una fascia di persone che rischia non solo la povertà, ma anche l’isolamento e l’emarginazione.
Non è ancora possibile verificare se i posti di lavoro che la rivoluzione tecnologica saprà produrre potranno compensare, anche solo a livello numerico, la perdita di occupazione che inevitabilmente i nuovi processi produttivi porteranno con la loro applicazione. Già ora le analisi sociali mettono in luce come sia praticamente tramontato il vecchio modello fordista-taylorista dell’occupazione e come, anche grazie all’impegno dei sindacati, si sia trasformato il lavoro nelle fabbriche. E insieme a questo c’è l’affermarsi di nuove forme, magari precarie, individuali e frammentate, che sfuggono ai tradizionali paradigmi. Senza dimenticare quel vasto campo del lavoro non retribuito in senso monetario, un lavoro che va dall’impegno domestico al volontariato nel suo più ampio spettro.
“Non tutto il lavoro è occupazione” ricorda nel suo ultimo libro Rosangela Lodigiani (“Lavoratori e cittadini”, Ed. Vita e pensiero, pagg. 134) mettendo in luce come sia non solo utile, ma indispensabile non ridurre il lavoro a una merce, con un valore espresso essenzialmente dal prezzo, ma valorizzare anche le forme di lavoro non di mercato, forme che “lungi dall’essere residuali, sono ancora oggi parti essenziali, sostanziali e persino in crescita del funzionamento della società”. Siamo quindi di fronte all’opportunità “di sviluppare garanzie e protezione per quelle molteplici attività che hanno un riconosciuto valore sociale e che rappresentano dei beni di interesse collettivo in quanto promuovono l’integrazione sociale”.
C’è in questo richiamo la volontà di uscire da quella visione di un lavoro capace di garantire dignità alle persone solo in misura proporzionale al reddito che garantisce. Una visione che almeno in parte è inserita anche nell’ipotesi di reddito di cittadinanza, un’ipotesi apprezzabile per la volontà di sostenere chi fatica a trovare un impiego, ma che appare difficile allargare a un progetto di partecipazione estesa al più vasto ambito dell’impegno sociale. Il rischio, anche in questo caso, può essere infatti quello di veder protagonista la logica centralistica e burocratica rispetto alla necessità di valorizzare i corpi intermedi, le realtà locali, le più varie dimensioni della sussidiarietà.