Qual è l’atteggiamento politicamente corretto verso la disoccupazione giovanile? Primo, sottolineare allarmati come i giovani senza lavoro non siano mai stati così tanti. Secondo, accusare il Governo di non fare abbastanza per ridurre la disoccupazione. Terzo, mettere sotto accusa la società, l’Europa, la moneta unica, il libero scambio, la globalizzazione, la politica monetaria Usa, e magari qualche complotto della grande finanza. Quarto, chiedere il salario minimo obbligatorio, cioè pagare i giovani anche se non lavorano.
Ecco, tutti questi elementi non li troverete nell’analisi realistica e accattivante realizzata da tre grandi esperti del mondo del lavoro (Giuliano Cazzola, Angelo Pasquarella e Alessandra Servidori) con il libro “Giovani al lavoro” (Ed. Guerini e associati, pagg. 190, € 21). Perché è un libro che vuol offrire una visione aperta e non condizionata dalle ideologie di un problema che costituisce comunque uno dei temi più importanti dell’attuale dimensione politica ed economica.
Anche perché con il 2014 si avvia la partecipazione italiana al programma europeo “Youth guarantee”, Garanzia giovani, che dovrebbe consentire ai giovani che escono da un ciclo di studi di avere entro quattro mesi un’offerta di lavoro o comunque un progetto di orientamento professionale che tenga conto della formazione raggiunta e che individui possibili sbocchi professionali futuri.
Un progetto di accompagnamento da parte di operatori professionali in grado di individuare i possibili punti di incontro tra la domanda e l’offerta e quindi di indirizzare i giovani verso le opportunità presenti in un mondo sempre più variegato e complesso. Affermano gli autori nell’introduzione: “È la parabola evangelica dei talenti a contrassegnare la via giusta. Non viene premiato né chi ha consumato il suo né chi lo ha gelosamente custodito, ma colui che lo ha fatto fruttare. E il talento della parabola non è solo un’antica moneta. Rappresenta il capitale umano che una persona, assumendo su se stesso la responsabilità del proprio futuro, deve essere in grado di investire nel contesto delle condizioni complessive in cui si trova a vivere e ad agire”.
Il mondo è cambiato negli ultimi decenni, con in primo piano una rivoluzione tecnologica che ha modificato modelli di vita e di lavoro e di cui nessuno può ancora valutare fino in fondo le implicazioni e le conseguenze. Eppure proprio nel mondo del lavoro continuano a dominare le vecchie regole, i vecchi principi, le vecchie garanzie; addossando sempre agli altri la titolarità dei problemi e la responsabilità di risolverli.
Certo, ci sono regole farraginose e ambivalenti, una burocrazia pervasiva e arrogante, un sistema amministrativo lento e autoreferenziale. E c’è il peso di un sistema fiscale che vede nel lavoro una fonte inesauribile di gettito. Quasi per farsi perdonare dei tanti vincoli che impone, il legislatore ha poi previsto sgravi e incentivi economici per l’occupazione giovanile, incentivi che tuttavia non possono compensare i freni e le barriere di carattere normativo. Salvo sbandierare semplificazioni illusorie come quella che prevede che si possa costituire una società con un capitale di un solo euro. Meglio di nulla, ma con un solo euro non si va molto lontano: non si compra nemmeno un biglietto del tram.
Ci sarebbero allora due necessità: da una parte dare fiducia ai giovani, introducendo fin dalla scuola contatti diretti con il mondo del lavoro; dall’altra pensare a una società dinamica, capace di valorizzare tutti i talenti e magari di sposare la competenza, l’esperienza, la professionalità di chi si trova in “area pensionamento” con la creatività, la freschezza, la passione dei giovani che vogliono essere parte attiva e costruttiva della società. E invece continuiamo a parlare di giovani sdraiati e di anziani esodati; continuiamo a vedere i problemi e non le opportunità; continuiamo, in fondo, a guardarci l’ombelico mentre passano i treni della storia.