La formazione continua è importante nel lavoro, ma rischia di essere solo un adempimento formale poco utile alle persone e alle imprese
A cinque anni dalla crisi sanitaria che ha riscritto le priorità delle imprese, la formazione aziendale in Italia si trova oggi in una fase di profonda trasformazione, ma anche di grande incertezza. Le evidenze raccolte dall'”Osservatorio per la formazione continua” rivelano uno scenario in chiaroscuro: da un lato, le aziende hanno compreso la centralità dell’aggiornamento delle competenze, dall’altro faticano a trasformare questo principio in una pratica efficace e diffusa.
La richiesta di formazione è forte e trasversale: il 98% dei lavoratori italiani ritiene l’upskilling e il reskilling fondamentali per il proprio futuro professionale. Ma a questa consapevolezza non corrisponde un’offerta realmente fruibile e ben comunicata. Solo il 47% dei dipendenti è a conoscenza dell’offerta formativa della propria azienda, segno di una profonda inefficienza nei processi di comunicazione interna e di valorizzazione del patrimonio formativo esistente.
La situazione si complica ulteriormente se si analizza la gestione concreta della formazione nelle imprese italiane. Dopo anni di accumulo di contenuti, spesso prodotti in house o acquistati a catalogo, oggi molte organizzazioni si trovano con centinaia di titoli in piattaforma – in media oltre 500 – distribuiti su fonti eterogenee e spesso scollegate tra loro. Una dispersione didattica che, oltre a generare confusione, compromette il ritorno sull’investimento delle iniziative formative.
In molte realtà, magari anche costituite da 500 addetti, la responsabilità dell’intera formazione grava su una singola risorsa, un rapporto che rende impraticabile ogni ipotesi di personalizzazione dell’offerta.
A questa difficoltà strutturale si aggiunge un nuovo fenomeno: la learning fatigue. L’iper-offerta di contenuti, se non guidata da logiche di rilevanza e personalizzazione, rischia di generare un senso di saturazione e disinteresse. Il 78% dei lavoratori italiani si dice disposto a formarsi di più, ma solo a condizione di ricevere contenuti realmente utili, pertinenti e cuciti sui propri bisogni. È qui che l’intelligenza artificiale può giocare un ruolo decisivo, rendendo finalmente scalabile quella personalizzazione che oggi manca. Ma da sola, la tecnologia non basta.
Serve un cambio di paradigma. Le imprese devono iniziare a considerare la formazione non come un costo accessorio, bensì un investimento strategico, integrato con le politiche di benessere, sostenibilità e innovazione. I dati del nostro Osservatorio mostrano una crescente attenzione verso i temi ESG e D&I compliance, che hanno guidato il 42% della domanda formativa negli ultimi anni, accanto all’interesse per le tecnologie applicate al manifatturiero e alla digitalizzazione delle relazioni di lavoro. Tuttavia, questa attenzione rischia di rimanere superficiale se non accompagnata da una progettazione didattica coerente e da una governance più solida.
Non si tratta solo di investire più risorse – sebbene il 41% delle aziende abbia incrementato il budget nel 2025 -, ma di spendere meglio, costruendo percorsi agili, accessibili e soprattutto significativi. Le imprese italiane hanno bisogno di nuovi modelli di gestione della formazione: più leggeri, più integrati con le esigenze delle persone, più capaci di generare valore. Per farlo, occorre liberare tempo, competenze e visione strategica all’interno delle funzioni HR e L&D.
La vera sfida non è tecnologica, ma culturale: serve un cambio di mentalità che metta al centro l’esperienza dell’apprendimento, la motivazione dei lavoratori e la capacità dell’organizzazione di evolvere insieme alle sue persone. Solo così la formazione potrà smettere di essere un adempimento, per diventare finalmente un motore di competitività, innovazione e benessere.
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