Per la sua canzone Anthem, il grande poeta canadese, può essere annoverato tra i più profondi filosofi della storia umana

Di recente mentre guidava verso il supermercato, ha sentito una canzone. Ha dovuto accostare per ascoltarla attentamente. C’è una crepa, una crepa in ogni cosa, è da lì che filtra la luce.In un momento così ordinario, una verità così assoluta. In qualche modo riguarda tutti gli uomini e le donne che sono là fuori, in altre parti del mondo, nelle loro celle anguste, ostaggio dell’oscurità. Una crepa in ogni cosa, cantavano alla radio”. (da Una madre di Colum McCann e Diane Foley, ed. Feltrinelli,  2023).

Improvvisamente, nella lettura appassionata del racconto/diario redatto con grande empatia dallo scrittore Colum McCann ispirato fortemente da Diane Foley, una madre che viene catapultata nel dramma famigliare di un figlio giornalista free lance, orrendamente decapitato nel 2014 dai terroristi dell’ISIS in terra siriana (il suo incontro/testimonianza sarà un appuntamento imperdibile al prossimo Meeting di Rimini) viene citato il famoso verso di una delle più belle canzoni, delle tante in carriera, di Leonard Cohen, uno dei protagonisti più rappresentativi della musica nordamericana della seconda metà del Novecento, ispiratore insieme a Bob Dylan, già da inizio carriera dei nostri Fabrizio De André e Francesco  De Gregori.

Titolo del brano Anthem (Inno) e questa intuizione della luce che attraversa la crepa di un muro, nella vita non solo artistica di Cohen sono spesso risuonate, quasi come un inno, un timbro, un marchio di fabbrica: “La luce è la capacità di riconciliare la tua esperienza, il tuo dolore, con ogni giorno che albeggia. È quella comprensione che va al di là del significato che ti consente di vivere la vita e accettare i disastri, i dolori e le gioie che sono il nostro comune destino. Ma ciò può accadere solo riconoscendo che c’è una crepa in ogni cosa. Credo che tutte le altre visioni siano destinate ad un pessimismo irreparabile”. Così Cohen, denunciava il nichilismo della modernità.

Scomparso nel 2016 ad 82 anni, non prima di avere scritto  e cantato un tris di album dall’impronta religiosa, avendo per tema una specie di esame di coscienza, nella consapevolezza che la propria vita terrena stava spegnendosi (è andato in tour quasi fino alla fine).



Nato in Canada, di origini ebree ma segnato da un’esperienza mistica lunga una decina d’anni come monaco in un movimento buddista in una comunità californiana, Cohen ha attraversato, già in età adulta, tutta la stagione della New York dei poeti della “nouvelle vague”, la Beat Generation  del Greenwich Village, fucina di giovani sinceramente e un po’ utopisticamente seguaci di un socialismo ideale, che nella musica folk cercavano un’occasione di presenza sociale contro le disuguaglianze create dal sistema politico borghese e formalista e dalle regole del capitalismo. Non è un caso che da lì nascerà il fenomeno Bob Dylan.

Pur essendo (come si ricordava) di origini ebree (una certa leggenda lo racconta, non allontanandosi troppo dalla realtà, anche come un appassionato “tombeur de femmes”), i suoi testi attingono spesso ai passi dell’Antico e del Nuovo Testamento: la sua famosa Hallelujah, totalmente sventrata ignobilmente da alcune versioni in lingua italiana, è la fedele cronaca dell’episodio biblico ad alto tasso erotico tra l’invaghito Re Davide e la già sposata Betsabea.

Ma quella frase della luce che attraversa la crepa, condizione di ogni seria esistenza umana, lo avvicina a grandi pensatori e filosofi che hanno avuto la stessa intuizione.

Come scrive Wittgenstein nei suoi Diari: “Hai bisogno di redenzione, altrimenti ti perdi (…) Deve, per così dire, filtrare una luce attraverso il solaio, il soffitto sotto cui lavoro e al di sopra del quale non voglio salire (…) Questo tendere all’ Assoluto, che fa apparire troppo gretta ogni felicità terrena (…) mi appare come qualcosa di splendido, di sublime, ma io stesso punto il mio sguardo alle cose terrene: a meno che Dio non mi visiti”.

Questa citazione è tratta dal saggio “La bellezza disarmata” pubblicato da Rizzoli nel 2015 a cura di don Julián Carrón. Citazione ripresa dall’antropologo e filosofo basco Mikel Azurmendi. Dichiaratamente agnostico, fino all’incontro con la comunità spagnola di Comunione e Liberazione, esperienza che racconterà nel libro “L’abbraccio. Verso una cultura dell’incontro” (Bur Rizzoli, 2020): “Per me Wittgenstein (…) era una persona straordinaria (…) e ho trovato la citazione di Carrón dei Diari: Che cosa vogliamo più della redenzione? Dov’è? Ma Wittgenstein dice: siamo qui seduti al nostro tavolino, riceviamo luce dal lucernario, tu lo guardi, è un segno dell’Assoluto a cui vorrei salire, ma io sono concentrato sulle cose terrene. E qui mi fermo a meno che non venga Dio e mi illumini.

Ho capito dove Wittgenstein non ha osato (…) nell’agnostico c’è sempre il timore di scoprire la verità. Preferisce dire: Io non so, potrebbe essere ma … che la luce venga su di me! (…) Avrebbe potuto dire: E se salissi verso la luce? Perché non salgo a sporgermi? Credo che sia quello che ho voluto fare io, salire al lucernario e guardare … e ho visto voi”.

Azurmendi ha lasciato questa vita nel 2021. Ma l’intuizione che ha avuto Cohen e che hanno avuto, come abbiamo visto anche pensatori come Wittgenstein e Azurmendi , è così vera sulla condizione umana dove ci si accorge che c’è un dato che travalica la crepa e che la filtra, che la ritroviamo autorevolmente anche in un intervento di San Giovanni Paolo II.

Nella lunga conversazione (inedita modalità a quel tempo per un papa) con lo scrittore francese André Frossard, che l’editrice Rusconi pubblicò nel 1983 in un volume dal titolo “Non abbiate paura”, il Papa polacco  durante i botta e risposta, riguardo il tema della “finitezza dell’umano” esprime questa riflessione: “C’è un’immagine che è alla base della Buona Novella: lo Spirito è quella breccia, quella fenditura, attraverso la quale l’essere umano, in quanto corpo ha il presentimento dell’ Infinito. In questo spirito umano aperto verso l’Infinito, lo Spirito Santo agisce tramite il Cristo crocifisso e risorto. Sotto la sua influenza l’uomo nella sua interezza produce frutti di santità, di buone azioni, di salvezza”.

Ed eccoci arrivati alla fine di questo piccolo percorso partito dalla lettura di uno sconvolgente libro, diario drammatico e di fede di una madre che si sorprende nell’ascolto di una canzone di un grande artista del Novecento musicale (Leonard Cohen) in cui l’artista canta l’intuizione profonda della condizione umana che non si rassegna al nichilismo e non cede al dolore del vivere quotidiano. Intuizione, che abbiamo raccontato, in cui si sono trovati a sorprenderla vera , filosofi e artisti di diversa cultura, e per confermare che tutto si tiene se si vive seriamente la propria vita, sono arrivate le parole del Papa Santo Wojtyla.

Ma finiamo con le parole della canzone dalla quale è partito questo percorso.

Un finale che lasciamo volentieri a Leonard Cohen. Era il 1992, anno di pubblicazione di Anthem, parole ancora di grande attualità: “La situazione difficile che stiamo vivendo, il futuro che non lascia speranze, sono solo scuse per abdicare le nostre responsabilità. (…)Noi abbiamo dimenticato il mito centrale della nostra cultura: la cacciata dall’Eden e tutto ciò che ne è derivato. Una conseguenza che ci costringe all’imperfezione. Il nostro amore è imperfetto. E peggio: c’è una crepa in ogni cosa (…) ma è proprio lì che la luce entra e permette la risurrezione, è lì che nasce il confronto con le cose che si rompono e il pentimento”.

 

Cantavan gli uccelli al levar del dì

Ricomincia da capo li sentii dire

Non indugiare su quel che è stato o che ancora non è

Saranno le guerre combattute ancora

La sacra colomba verrà catturata ancora

Comprata e venduta

E comprata ancora

La colomba mai libera non è

Suonate le campane che possano ancora suonare.

Dimenticate la vostra offerta perfetta

C’è una crepa in ogni cosa

È così che entra la luce

Potete sommare le parti

Ma non avrete il tutto

Potete attaccare la marcia

Non c’è il tamburo

Ogni cuore, ogni cuore

Verrà dall’amore

Ma come un fuggiasco

(…) C’è una crepa in ogni cosa

C’è una crepa in ogni cosa.



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