Ieri a Istanbul Papa Leone XIV e il patriarca ecumenico Bartolomeo I hanno firmato una dichiarazione congiunta nel segno di Nicea
In illo uno unum, “In quell’unico [Cristo] siamo uno”. È la frase di sant’Agostino che Papa Leone ha scelto come proprio motto pontificio. Ed è anche la chiave con cui leggere lo straordinario viaggio apostolico che il Papa sta ultimando in Turchia, prima di spiccare il volo, nel primo pomeriggio di oggi, alla volta del Libano.
Appuntamento al 2033
Non c’è dubbio che la Turchia possieda un peso crescente “nel presente e nel futuro del Mediterraneo e del mondo intero”, secondo le parole del Pontefice. Tuttavia, non sono le considerazioni geopolitiche a spiegare questo viaggio. Il suo cuore è, indiscutibilmente, la cerimonia di commemorazione dei 1700 anni del Concilio di Nicea, svoltasi presso i resti dell’antica basilica di San Neofito.
Il Credo che fu proclamato a Nicea nel 325, poi completato a Costantinopoli nel 381, esprime infatti la fede comune di tutti i cristiani del mondo. Cattolici, ortodossi, ortodossi orientali e protestanti, tutti si ritrovano uniti nel riconoscimento di Gesù come Figlio di Dio.
Questa affermazione, come ha ricordato Leone XIV nella sua splendida Lettera apostolica In unitate fidei, non intende tanto enunciare una verità filosofica, quanto offrire una risposta al nostro dramma esistenziale. Quel Figlio che è “della stessa sostanza del Padre” non è restato nei cieli: si è incarnato, è morto e, proprio perché è Dio, è risorto, vincendo la morte. È il primo annuncio cristiano e non a caso Leone XIV ha invitato tutti i leader ecclesiali del mondo a Gerusalemme nel 2033, quando ricorreranno i duemila anni dalla Redenzione.
Pietro e Andrea
Ma se il Credo di Nicea unisce tutte le chiese e comunità ecclesiali, è evidente che Leone ha manifestato una vicinanza tutta particolare al Patriarca ecumenico Bartolomeo, figura dalla notorietà internazionale, ma che in patria deve fare i conti con una presenza cristiana ridotta ai minimi termini. La dichiarazione congiunta sottoscritta ieri da Leone e Bartolomeo riparte dalla commemorazione di Nicea, aggiungendovi però importanti precisazioni.
Anzitutto la questione della data della Pasqua, che sembra secondaria ma non lo è, soprattutto dove i cristiani sono minoranza, come in Medio Oriente. Poi soprattutto la volontà di proseguire il dialogo teologico tra cattolici e ortodossi.

Mentre i Concili di Nicea e Costantinopoli sono accettati da tutte le chiese e comunità cristiane esistenti, già quello di Efeso (431) fu rifiutato dalla Chiesa d’Oriente, una realtà oggi presente soprattutto in Iraq e nella diaspora, ma che nel Medioevo giunse a bussare alle porte della Cina.
Ma è soprattutto con Calcedonia (451) che l’unità della Chiesa primitiva, in realtà sempre precaria, si spezza. Il Patriarcato di Alessandria rifiuta le decisioni di Calcedonia e nel tempo nascono le Chiese ortodosse orientali (copti, siro-ortodossi, armeni, etiopi).
Roma e Costantinopoli però restano in comunione ancora per molti secoli. Nonostante i rapporti si facciano più sporadici, le due sedi rimangono unite fino alla scomunica del 1054. Un millennio di storia, sette concili ecumenici, un tesoro di spiritualità e santità a cui attingere per respirare a due polmoni, secondo la celebre espressione di san Giovanni Paolo II.
Nel 1965, con un gesto profetico, Paolo VI e il Patriarca Athenagoras firmano una dichiarazione comune “per togliere dalla memoria e nel mezzo della Chiesa le sentenze di scomunica dell’anno 1054”. Benché questo gesto abbia rappresentato un passo fondamentale verso l’unità, il cammino è ancora impervio. Una parte del problema è legata al fatto che le Chiese ortodosse sono divise al loro interno, come ha manifestato in modo drammatico l’invasione russa dell’Ucraina.
Di fronte a queste sfide, appellarsi a Nicea può apparire ingenuo. Non lo è affatto. Il Credo di Nicea, ha ricordato il Papa, “ci propone […] un modello di vera unità nella legittima diversità. Unità nella Trinità, Trinità nell’Unità, perché l’unità senza molteplicità è tirannia, la molteplicità senza unità è disgregazione” (In unitate fidei, n. 12).
Insomma, l’unità che hanno in mente Leone e Bartolomeo non consiste in un utopico ritorno alla situazione anteriore al 1054 né in un riconoscimento dello status quo ecclesiastico. È piuttosto un dono della Trinità, quella Trinità che proprio al Concilio di Nicea è stata confessata solennemente. Farne memoria è decisivo per l’avvenire.
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