Sono piovute critiche sulla serie RAI di Sergio Rubini, Leopardi. Il poeta dell’infinito. Molte anche comprensibili: la “salute fisica” di questo Leopardi, la sua eccessiva voglia di vivere, l’averlo trasformato un po’ in Cyrano nella parte finale, nello scambio epistolare con Fanny.
Eppure questi – a volte impietosi – giudizi, non fanno altro che confermare che il nostro Giacomo non riesce a sdoganarsi dall’immagine scolastica che tutti ne abbiamo, da decenni: il rassegnato pessimista marchigiano, debole e malato, attaccato a figure funeree e mortuarie.
Invece la fiction parte subito col piede giusto; cita già dalle prime scene uno degli episodi più sconosciuti, ma fondamentali, dell’infanzia del poeta, da lui stesso raccontata nella Storia di un’anima: “Da fanciullo avendo veduto alcune figure di San Luigi a cavallo per Roma, che la gente diceva, ecco il Santo, disse, ancor io, cresciuto che sarò, voglio farmi Santo, e la gente vedendomi passare, dirà: ecco il Santo. Vedete l’entusiasmo di gloria che l’accendeva. Ma i suoi parenti devoti lo pigliavano per devozione…”.
Questa è la cifra che caratterizza tutto il film: il desiderio smodato di vita, lo stesso desiderio che già De Sanctis aveva riconosciuto nel giovane recanatese: “…chiama illusione l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende un desiderio inesausto. È scettico, e ti fa credente”. Sembra di risentire le parole di un grande appassionato di Leopardi, un giovane don Luigi Giussani: “Non voglio vivere inutilmente, questa è la mia ossessione”.
È l’immensa voglia di esistere e di esserci che rende il poeta assolutamente trasgressivo e moderno, seguace delle esigenze del suo cuore e quindi mai schiavo delle circostanze, mai disponibile ad abbandonare quello che per lui era “il pensiero dominante”, la felicità dell’uomo. Così la fuga dalla “dipinta gabbia” di palazzo Leopardi; il rifiuto della carriera romana; la vita continuamente trascorsa tra un’affannosa ricerca di sistemazioni – sempre precarie – e caratterizzata da un’accentuata indigenza; la sopportazione – sia a Milano e Firenze che a Napoli – dell’avversione e dell’esclusione dalla cerchia dei letterati di moda (massoni cattoliberali neoidealisti ottimisti e progressisti, in primis Tommaseo); la fine della sua esistenza quasi solitaria e triste a Torre del Greco, confortata dall’unico amico Ranieri.
Insomma, Leopardi, nel suo essere effettivamente debole, malato, solo, in realtà, a ben pensarci, è uno Spartaco e un lottatore eroico della ricerca del senso del vivere e della vera felicità.
Questa idea di lui ci resta stampata in mente, dopo aver visto la serie di Rubini. Quel Giacomo amante della vita che un giorno di primavera del 1820, dopo il suo anno funesto di depressione e cecità, il 1819, di fronte a una lettera dell’amico Pietro Giordani, che in mezzo ai suoi malanni gli augurava la morte come termine di tante sofferenze e incomprensioni, fece questa riflessione sul suo Zibaldone:
“Mentre io stava disgustatissimo della vita, e privo affatto di speranza, e così desideroso della morte, che mi disperava per non poter morire, mi giunge una lettera di quel mio amico, che m’avea sempre confortato a sperare, e pregato a vivere, assicurandomi come uomo di somma intelligenza e gran fama, ch’io diverrei grande, e glorioso all’Italia, nella qual lettera mi diceva di concepir troppo bene le mie sventure, (Piacenza 18 Giugno) che se Dio mi mandava la morte l’accettassi come un bene, e ch’egli l’augurava pronta a sé ed a me per l’amore che mi portava. Credereste che questa lettera invece di staccarmi maggiormente dalla vita, mi riaffezionò a quello ch’io aveva già abbandonato? (Zib. 137, 26 giugno 1820)”.
Leopardi continuerà la sua riflessione, scrivendo che l’uomo spesso si lamenta e si dichiara a parole disgustato della vita, ma che questo non è un grido di morte bensì una esigenza di esistere; infatti nel profondo di sé egli sentirà tutto il contrario di quello che dice. “Se anche egli ti esagera la sua calamità, sii certo che nell’intimo del suo cuore fa tutto l’opposto, dico nell’intimo, cioè in un fondo nascosto anche a lui. Tu devi convenire non colle sue parole ma col suo cuore” (Zib. 137).
Certamente Rubini – ma anche Mario Martone nel suo film Il giovane favoloso lo aveva fatto – si è concesso qualche “licenza poetica”, ma sicuramente entrambi i registi ci guidano su una strada di vera conoscenza del “cuore lottatore” del poeta marchigiano, una strada che sarebbe ora che si aprisse anche ai nostri studenti nei loro studi della poesia leopardiana.
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