Non capita spesso, specialmente nelle ricorrenze ufficiali come il 25 aprile, che venga ricordato il sacrificio degli Imi, Internati Militari Italiani, di cui ancora oggi nei testi scolastici è difficile imbattersi. Lo ha fatto il Presidente della Repubblica in un passaggio del suo discorso ufficiale pronunciato a Vittorio Veneto: “Vi erano i partigiani, capaci di coraggio, di spirito di sacrificio e di imprese audaci; i soldati italiani che combatterono fianco a fianco con l’esercito alleato, coprendosi di valore. Accanto a essi, come componente decisiva della Resistenza italiana, desidero ricordare i tanti militari che, catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre, rifiutarono l’onta di servire sotto la bandiera di Salò e dell’esercito occupante e preferirono l’internamento nei campi di prigionia nazisti. Seicentomila: un numero imponente che fa riflettere sulla decisa prevalenza del senso di onor di Patria rispetto al fascismo fra gli appartenenti alle Forze armate. Quasi cinquantamila di questi morirono nei lager in Germania, di stenti o per le violenze”.
Di loro si “dimenticarono” durante la Resistenza e dopo la Liberazione non soltanto la comunità internazionale e la Croce rossa, che non ne riconobbero lo status giuridico, ma neppure il nascente Stato democratico-repubblicano impegnato a prendere le distanze dall’ex-alleato tedesco e dalla morente monarchia. Ma siccome la storia non conosce la fretta di salire sul carro dei vincitori e, coi tempi che le sono propri, prima o poi dà a Cesare quel che è di Cesare, ecco finalmente occuparsi degli Imi.
Tra loro, uno dei più noti è certamente Giovannino Guareschi, il padre di Peppone, don Camillo e del Cristo crocifisso che parla, detenuto in quattro lager nazisti dal settembre ’43 a fine conflitto. Così scrive il prigioniero 6865 dal campo di Sanbostel nell’agosto 1944: “Guardo le mie mani rasciugate e i miei polsi scarniti, e provo una dolce pietà di me stesso. Sotto quei trenta chilogrammi di carne che ho persi, si nascondeva qualcuno che io credevo morto. Anche l’anima era coperta di grasso, e oggi è tornata limpida, e in essa io mi specchio e ritrovo l’immagine della mia lontana giovinezza. Quando guardo le mie ossa minute, provo la stessa dolce angoscia che sento quando penso alla fragilità del mio bambino: comincio a volermi bene. Fame: la vita in questi giorni mi va lentamente mancando. Il mio malore mi impedisce di mangiare le cose che mi danno, eccettuate le pallide patate, scipite e scivolose. Adesso sono solo in baracca, e uno zaino gonfio di viveri è ai miei piedi, messo lì da qualcuno dei nuovi arrivati. Nel buio umido e graveolente della sera d’agosto, da tempo io sono intento ai miei pensieri, quando mi accorgo che una mano magra fruga nella sacca. Non intervengo, lascio fare. Lascio che quelle dita scarne stringano disperatamente un pezzettino di pane bianco. Vado a confondermi fra i mille che camminano in su e in giù lungo il reticolato, e mangio il pane a bocconcini. E i fari delle torrette che ogni tanto s’accendono, mi pare che cerchino me, e ogni tanto mi batte il cuore, ma non sono turbato. Anzi, sono contento. Mio figlio aveva fame, e io ho lasciato che rubasse il pane. ‘Anch’io in fondo sono figlio mio’, penso. E mi sento protetto da me stesso”.
Ecco, anche questi militari che non hanno tradito il giuramento al re, ma nemmeno si sono abbandonati alla propaganda nazifascista meritano il loro posto nel profluvio di discorsi, spesso ridondanti e limacciosi, del 25 aprile e oltre. Perché anche loro sono Resistenza (e primi tra tutti: era il 9 settembre ’43 quando rifiutarono di aderire al Reich) accanto ai tanti italiani (o pochi, dipende dai punti di vista) che vi entrarono a fare parte.
Se volete farvene un’idea, leggetevi lo struggente Giovannino nei lager che, da poco uscito per Rizzoli, raccoglie in un bel formato 4×4 le opere scritte e disegnate da Guareschi “per non lasciarsi mai travolgere dalla disperazione, immaginando accanto a sé la presenza della famiglia e per aiutare a sopravvivere anche i compagni di prigionia” (così Bruna Magi sulla Gazzetta di Parma). Vi troverete descritta per filo e per segno la storia di “un’altra Resistenza”, quella che porterà – suo malgrado – alle amarezze dell’Italia libera. Anche di ciò v’è traccia nel volume curato dai figli Alberto e Carlotta (quest’ultima citata come fosse ancora viva e in effetti lo è, da Pasionaria immortalata nei libri del padre). Ma questa è un’altra storia.