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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Borges, il mistero di Yu Tsun è l’imprevedibile labirinto della nostra vita

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LETTURE/ Borges, il mistero di Yu Tsun è l’imprevedibile labirinto della nostra vita

Joshua Nicolosi
Pubblicato 4 Settembre 2025
Jorge Luis Borges (1899-1986) (Ansa)

Jorge Luis Borges (1899-1986) (Ansa)

“Il giardino dei sentieri che si biforcano” è un racconto di Jorge Luis Borges scritto nel 1941. Ogni strada, mai definitiva, va percorsa fino in fondo

La letteratura è quel luogo in cui, in momenti diversi, tutti possiamo finire per chiamarci Yu Tsun. Per ripensare alla nostra giovinezza, quando ancora nessuno ci chiamava professore, in una Cina di silenzi e di fantasmi, cullati da un mistero familiare che riaffiora ad ogni passo, ad ogni nuova avventura. Persino in quelle più asfittiche, più improbabili, che sembrerebbero ostili alla dimensione del ricordo e della riflessione. Nei frangenti drammatici della Grande guerra, quando anche la più innocente delle incertezze può risultare fatale.


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Perché il nostro compito è fare la spia per i tedeschi ai danni dei britannici, camuffare e dissimulare, sfruttare ad arte il silenzio e accantonare la voce. Sempre che l’eco di quell’ancestrale magia nata all’ombra d’Oriente lo permetta. E non decida di squarciare il velo del passato per artigliare il presente.


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O forse nulla di tutto questo è davvero esistito. Perché la letteratura, si sa, è anche il luogo in cui germoglia la finzione. Perché il dubbio che l’intreccio narrativo sia solo un pretesto, un insieme di studiate macchinazioni e di cifrati simbolismi, è tremendamente reale. Perché Yu Tsun è una costola dell’anima di Jorge Luis Borges, tessitore di fantasie per eccellenza.

E proprio Finzioni è il titolo del volume nel quale, nel 1944, dopo essere stato pubblicato tre anni prima, è contenuto Il giardino dei sentieri che si biforcano, uno dei racconti più brillanti che lo scrittore argentino abbia mai consegnato al proprio pubblico. Un’opera magnetica – sulla quale Sciascia, Calvino e García Márquez tra gli altri costruiranno il loro, di sentiero – che essenzialmente non fa che sdoppiarsi, mutare sotto ai nostri occhi senza soluzione di continuità, rendendosi di volta in volta irriconoscibile. Anche per chi, come il protagonista, dovrebbe possederne la chiave d’accesso.


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Il titolo del racconto è infatti anche il nome di un celebre, surreale ed irrisolto scritto di Ts’ui Pen, antenato di Yu Tsun noto anche per aver edificato un labirinto mai rinvenuto. E non è un caso che proprio nelle fasi più concitate del conflitto, quando la spia si ritrova a dover trasmettere un messaggio di vitale importanza, quando tutto è appeso ad un filo, il pensiero corra nuovamente a quella strana ossessione.

A quell’ammasso di righe e di inchiostro apparentemente insensato, che generazioni di studiosi si sono affannati ad interpretare senza successo e che somiglia ai dispacci in codice ai quali giornalmente Yu Tsun affida la propria sorte. Qualcosa di sospeso, di irrisolto, prende possesso di lui, mentre si dirige in treno da Stephen Albert, ultima persona rimasta che può fornirgli le informazioni necessarie al completamento della sua missione: svelare la collocazione delle artiglierie britanniche.

Ma ecco la biforcazione. Il sentiero inesplorato che, improvvisamente, disvela la sua via d’accesso. Albert è, tra le altre cose, un appassionato di letteratura cinese e ha dedicato tutta la vita proprio all’enigma di Ts’ui Pen.

Ha scartabellato i suoi scritti con voracità intellettuale, sperando, nel frattempo, che una traccia, anche sbiadita, del labirinto potesse saltare fuori tra le pagine. Per anni, all’insaputa l’uno dell’altro, due volontà erano state unite dal medesimo desiderio. Ma Albert era riuscito in qualcosa di più: aveva decifrato il libro oscuro. Aveva trovato il labirinto: e li aveva trovati nello stesso identico rifugio della memoria.

“Strano destino – disse Albert – quello di Ts’ui Pen. Alla sua morte, i suoi eredi non trovarono che manoscritti caotici. La famiglia, come lei forse non ignora, volle darli alle fiamme; ma il suo esecutore testamentario – un monaco taoista o buddista – insistette per la pubblicazione”.

“Noi del sangue di Ts’ui Pen” replicai, “continuiamo ad esecrare quel monaco. La pubblicazione fu insensata. Il libro è una confusa farragine di varianti contraddittorie. Una volta l’esaminai. Nel terzo capitolo l’eroe muore, nel quarto è vivo. E quanto all’altra impresa di Ts’ui Pen, al suo Labirinto…”

“Ecco il Labirinto” disse indicandomi un alto scrittoio di lacca.

“Un labirinto d’avorio!” esclamai. “Un labirinto minimo”.

“Un labirinto di simboli” corresse. “Un invisibile labirinto di tempo. A me, barbaro inglese, è stato dato di svelare questo mistero diafano. A distanza di più di cent’anni, i particolari sono irrecuperabili, ma non è difficile immaginare ciò che accadde. Tutti pensarono a due opere, nessuno pensò che libro e labirinto fossero una cosa sola”.

Il mistero che per una vita Yu Tsun aveva cercato di districare era sempre stato dinanzi a lui. Ed era ben più che un insieme di pagine rilegate. Ben più di un mito andato perduto. Era la vita stessa, con tutte le sue creative, sorprendenti ramificazioni. Con i finali mai definitivi, con dei nuovi inizi sempre dietro l’angolo. Con le inezie che si mettono di traverso e capovolgono destini che sembravano scolpiti. Con l’opportunità o la condanna di dover, poter ricominciare. Con le combinazioni di spazi e di tempi che talvolta non tengono conto delle nostre attese, che rifiutano di rivelarsi sino all’ultimo secondo. Un incrocio di percorsi dove non esiste un futuro pre-confezionato, ma l’infinita, instancabile convivenza di alternative. Dove ad ogni piccolo, insignificante, timido incedere può corrispondere la possibilità di riscrivere tutto.

“Mi colpì la frase: Lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano. Quasi immediatamente compresi; il giardino dei sentieri che si biforcano era il romanzo caotico; le parole ai diversi futuri (non a tutti) mi suggerirono l’immagine della biforcazione nel tempo, non nello spazio. Il giardino dei sentieri che si biforcano è un enorme indovinello, o parabola, il cui tema è il tempo: è questa causa recondita a vietare la menzione del suo nome. Omettere sempre una parola, ricorrere a metafore inette e a perifrasi evidenti, è forse il modo più enfatico per indicarla. È il modo tortuoso che preferì, in ciascun meandro del suo infaticabile romanzo, l’obliquo Ts’ui Pen”.

E altrettanto obliquo, come i suoi personaggi, ha scelto di essere Borges. Di esaltare le variabili, la complessità, l’imponderabile di ciò che viviamo in un romanzo che sfiora la dimensione dell’infinito. Nel quale ogni strada va percorsa fino in fondo. Nel quale nessun punto può dirsi definitivo. Nemmeno quelli che appaiono più assodati, più scolpiti. Anche a fronte di un finale letterariamente traumatico – che va affidato al piacere e alla curiosità dei lettori – e controverso. Dove la guerra torna ad irrompere bruscamente. Dove l’apparenza, per l’ennesima volta, si smentisce e si riafferma da sé.

In fondo, come amava dire Sciascia, la letteratura, spesso, si rivela più vera della realtà. E allora è lì, nel convergere di tutti i futuri, di tutte le possibilità dell’uomo, che la scrittura svela chi siamo. Multiformi e, il più delle volte, ignari.

“Ts’ui Pen non credeva in un tempo uniforme, assoluto. Credeva in infinite serie di tempo, in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Questa trama di tempi che s’accostano, si biforcano, si tagliano o s’ignorano per secoli, comprende tutte le possibilità. Nella maggior parte di questi tempi noi non esistiamo; in alcuni esiste lei e io no; in altri io e non lei; in altri, entrambi. In questo, che un caso favorevole mi concede, lei è venuto a casa mia; in un altro, traversando il giardino, lei mi ha trovato cadavere; in un altro io dico queste medesime parole, ma sono un errore, un fantasma. In uno di questi io sono suo nemico”.

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