Ora che sembra indirizzato a vele spiegate verso l’opposizione, il giudizio sul cosiddetto “sovranismo” può forse strutturarsi in modo più sereno e pacato, facilitando (chissà) l’unica fatica da fare al suo cospetto: comprendere dove esso nasca e su quali bisogni faccia leva tanto da rimanere ancora – fino a prova contraria – l’area politica di maggioranza relativa in Italia. Si è già detto su queste stesse colonne che affibbiare ai sovranisti l’etichetta di truci e ignoranti votati da gente altrettanto incolta e rozza è un’operazione banale, riduttiva e per questo fuorviante, che non permette di intercettare e fare proprie le esigenze politiche, sociali ed economiche che sono alla base di un consenso così diffuso e variegato.
Quando si giudica il sovranismo – che poco o nulla ha a che vedere col nazionalismo, beninteso – occorre sapere che esso nasce a sinistra. Nella variante socialdemocratica, con Keynes e lo Stato imprenditore; nella variante più radicale, con lo statalismo e la collettivizzazione (senza contare il “Patria o muerte” di Che Guevara, che proviene da un un Centro-Sud America strutturalmente assai diverso dall’Occidente).
In ogni caso, e in ogni sua forma, quello che oggi spregiativamente e spesso a comando siamo soliti definire “sovranismo” è stato storicamente il tentativo della politica di realizzare un controllo più o meno efficace sull’economia e sulla finanza.
Non a caso, e giustamente, la Treccani descrive il sovranismo come quella “posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovranazionali di concertazione”.
Perché allora oggi il sovranismo sembra essere un fenomeno politico nelle sole mani della (cosiddetta) destra?
Semplice: perché, in Italia, il partito che avrebbe dovuto ereditare le posizioni più mature di quella sinistra ha di fatto abbandonato il suo compito storico, abbracciando il progressismo neoliberista e individualista che pochi scrupoli si fa a subordinare il benessere dei popoli alle leggi della finanza, e che bolla come “populismo” qualsiasi tentativo dal basso di recuperare una qualsivoglia dignità.
Il capitalismo, così com’è, è un giocattolo che si è rotto, e come tale va ripensato: questo vogliono dirci i voti ai sovranisti (ed è, d’altro canto, proprio quello che le élite dominanti vogliono invece non si dica). A mio giudizio, il capitalismo si è rotto per due motivi.
Il primo è la finanziarizzazione spaventosa dell’economia, tale per cui da un lato il settore finanziario è diventato più importante dell’economia reale, dall’altro l’economia reale è diventata finanziarizzata: con un gioco di parole potremmo dire che la finanza finanzia la finanza. Ciò determina che l’enfasi delle grandi aziende, a livello globale, è più nel ricomprare le proprie azioni che nell’investire lo stesso denaro sul capitale umano o su altri investimenti produttivi. In tal modo si fa salire il valore delle proprie azioni usando la finanza anziché creare le condizioni per una crescita di lungo periodo: questo, ovviamente, genera un cortocircuito dal quale ad uscirne a pezzi sono, come sempre, gli ultimi, che vedono acuire il divario sociale che li relega sempre più ai margini della società. Ecco, allora, la conseguente ricerca di spazi meno “infiniti” rispetto a quelli della globalizzazione, e la richiesta di protezione fatta alla vecchia e cara sovranità nazionale. Ecco, allora, i voti ai sovranisti.
D’altronde lo stesso Papa Francesco – sempre attento ad evidenziare le storture più nefaste del modello di sviluppo neoliberista – denunciò la trasformazione del ruolo dell’imprenditore parlando a Genova, allo stabilimento Ilva di Cornigliano il 27 maggio 2017. Papa Bergoglio in quell’occasione è stato molto netto: “Una malattia dell’economia – disse – è la progressiva trasformazione degli imprenditori in speculatori. Lo speculatore è una figura simile a quella che Gesù chiama mercenario. Licenziare, chiudere, spostare l’azienda non gli creano alcun problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, mangia persone e mezzi per il suo profitto. (…) Quando l’economia è abitata invece da buoni imprenditori, le imprese sono amiche della gente e anche dei poveri. Quando passa nelle mani degli speculatori, tutto si rovina. Con lo speculatore, l’economia perde volto e perde i volti. È un’economia senza volti. Un’economia astratta. Dietro le decisioni dello speculatore non ci sono persone e quindi non si vedono le persone da licenziare e da tagliare. Quando l’economia perde contatto con i volti delle persone concrete, essa stessa diventa un’economia senza volto e quindi un’economia spietata”.
Il secondo motivo di crisi dell’attuale modello di sviluppo – che riguarda in modo specifico il caso italiano ed europeo – è la questione dei conti pubblici. Un mantra ripetuto ossessivamente dagli europeisti nostrani senza se e senza ma, verso il quale a volte sembra impossibile anche solo avviare una qualunque riflessione. Ma il problema reale non è il deficit: esso, infatti, è stato molto basso per anni eppure il rapporto tra il debito e il Pil ha continuato ad alzarsi perché il denominatore non cresce. Il problema reale è la crescita del Pil, che se realizzata abbassa anche il debito. Una delle sfide dell’Europa è capire che il problema dei Paesi del Sud – Italia, Grecia, Portogallo – non è l’eccesso di spesa, bensì gli investimenti scarsi, l’assenza di un ecosistema di innovazione, la produttività ferma, la mancanza di cambiamenti strutturali. La diagnosi sbagliata del problema produce effetti sbagliati: la prolungata enfasi sul tagliare – è così ancora adesso – oltre alla riduzione impietosa della spesa pubblica per il “welfare state”, ha reso il deficit basso una scusa per non cambiare le componenti strutturali dell’economia. Servono più investimenti, questo è il nodo. Più l’Europa non capisce questo, più i sovranismi sono destinati a crescere. D’altronde, cosa me ne faccio del sogno dell’Europa unita se essa è sorda rispetto ai miei interessi? Meglio tornare al rassicurante perimetro nazionale, chiarendo cosa è interno e cosa esterno, cosa è “dentro” e cosa è “fuori”. Questo, più o meno, è il ragionamento di una eventuale signora Maria o di un ipotetico signor Rossi, ed è un ragionamento che – pur nella sua semplicità – ha un innegabile fondamento. Non si può e non si deve misconoscerlo.
Con la Germania in recessione – è notizia di pochi giorni fa – sembra ora che l’allentamento dei vincoli deficit/Pil sia tornato sull’agenda della Commissione. Staremo a vedere. Ma se anche si andasse in questa direzione – e speriamolo tutti – non si può sfuggire comunque all’idea che lo si sarebbe fatto per venire incontro agli attuali interessi tedeschi, vera guida economica dell’Unione. La nostra fortuna, in quel caso, sarebbe solo che i nostri interessi coincidono ora con quelli di Berlino. Poca cosa, per un’Europa che vuole giustamente sopravvivere a se stessa.