LETTURE/ Da Dickens all’Ue, chi svuota il senso (cristiano) del Natale

- Paolo Valesio

La vena politeistica che si è inserita nella memoria cristiana del natale ha ottenuto di farci distrarre completamente dall'evento. Ha vinto Dickens

Canzoni di Natale moderne 2021 Babbo Natale (LaPresse)

Caro direttore,
la recente tempesta in un bicchier d’acqua in quel Palazzo dei Passi Perduti e Atti Mancati che è la sede dell’Unione Europea, a proposito della circolare poi “ritirata” che scoraggiava gli auguri di Natale, ha causato la solita piccola tempesta mediatica poi subito dimenticata. Ma forse non è inutile azzardare un’ulteriore precisazione. Lo svuotamento di senso del Natale non è cominciato nell’inverno 2021 a Bruxelles, ma ha avuto inizio molto molto tempo fa – probabilmente nei primi secoli dell’Era Volgare, quando (con il genio sincretistico che ha sempre caratterizzato la vita della Chiesa) potrebbe essersi diffuso anche in ambito cristiano l’uso romano di scambiarsi piccoli regali in occasione di certe feste.

Da quel momento in poi una certa vena politeistica si è inserita nella risposta cristiana al Natale (“politeistico”, in stile neo-junghiano, non è una pedanteria ed è un termine preferibile a “pagano”, che ha una connotazione di disprezzo; non c’è bisogno di sacrificare sugli altari degli dei olimpici per nutrire un certo rispetto riguardo alle forme di religiosità pre-cristiana). Insomma, il tempo delle scomuniche è passato, e comunque è inutile lacerarsi le vesti di fronte al fatto acquisito che il Natale resta una festa inizialmente cristiana che si svolge in un’atmosfera politeistica.

L’unica risposta realistica alla prevedibile domanda su che cosa allora ci sia rimasto di cristiano nel politeismo natalizio è: nulla che sia visibile, proprio nulla. Nemmeno quell’antico e misterioso archetipo che è la capanna o grotta, nemmeno il Bambinello nella culla. Idea geniale, quest’ultima (forse di San Francesco nel 1223 a Greccio, come sappiamo); che però può essere vista come un gesto di esasperazione metafisica: di fronte alla quasi impossibilità di capire – dunque di far capire – ciò di cui si sta parlando, la si trasforma in una scena teatrale. Già infatti in questo straordinario gesto di devozione si annidava (sia detto con venerante rispetto per il Santo, ammesso che sia stato veramente lui l’inventore) il pericolo dello slittamento o svuotamento: si creava cioè una scena così eloquente e commovente che correva il rischio di distrarre dall’evento.

Da allora il politeismo (Babbo Natale e compagnia cantante) scatena le forze dell’immaginazione: della quale non si può mai sottovalutare l’energia psicologica e addirittura spirituale (una spiritualità magico-estetica). Se poi si volesse fissare la data più significativa nella storia dello svuotamento moderno in Occidente del senso del Natale, il candidato più plausibile sarebbe la metà dell’Ottocento in Inghilterra, e precisamente quell’anno 1843 in cui appare il cosiddetto Racconto di Natale di Charles Dickens; il cui titolo originale, così barocco che un teorico della letteratura potrebbe addirittura definirlo come metalinguistico, suona: Una caròla di Natale in prosa, cioè Un racconto natalizio di fantasmi. Si può ipotizzare che il genio di Dickens (collocato da una moderna romanziera inglese di formazione filosofica accanto a Balzac e a Dostoevskij in una sua triade di “semidei” della narrativa) abbia popolato con tanta vivacità la nostra immaginazione del Natale da averla quasi “spopolata” del suo elemento propriamente cristiano (Dickens svuota il Natale di ogni metafisica per appiattirlo tutto sulla beneficenza; mossa non del tutto sconosciuta anche alla mentalità di alcuni contemporanei comunicatori del cristianesimo).

Il Natale è terribilmente arduo da capire, e virtualmente impossibile da rappresentare e visualizzare, perché il suo termine-concetto centrale, l’Incarnazione, è uno di quei pesanti vocaboli teologici che restano (diciamolo francamente) abbastanza scoraggianti nella loro opacità. E forse buona parte dell’alta e meritata reputazione del tedesco come lingua filosofica è il suo coraggio nel trasformare in linguaggio moderno certi latinismi medioevali: quando il tedesco dice, invece di Incarnazione, “il Divenir-Uomo di Dio”, la frase risulta più lunga ma almeno è inequivocabile.

Pare che i fisici si accaniscano, non da oggi, nel cercare di capire quali siano state le conseguenze del Big Bang a partire dal secondo successivo al suo verificarsi. Il che incoraggia ad azzardare l’idea non irriverente (e perché mai dovrebbe esserlo?) che tutto quello che ha seguito il “Big Bang” indefinibile se non impensabile (anche da parte degli Angeli) del “Divenir-Uomo di Dio”, sia stato e sia una bella celebrazione e una nobile allusione che ci edifica, ma nell’istante stesso ce ne distrae: distrazione profonda, suggestiva – e conturbante.

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