Toni Servillo ha prestato la sua voce ad alcuni stralci dei “Promessi sposi”. Magistrale l’interpretazione del dialogo tra il card. Borromeo e don Abbondio
“Terminate le funzioni, don Abbondio, ch’era corso a vedere se Perpetua aveva disposto ogni cosa per il desinare, fu chiamato dal cardinale”. Toni Servillo, messo piede sul palco, rompe immediatamente gli indugi e si tuffa nel 25esimo capitolo dei Promessi sposi per affrontare uno dei dialoghi più strepitosi e più ardui del romanzo.
“Fu chiamato”: è il momento della resa dei conti che il povero parroco solo qualche pagina prima si era illuso di aver scansato, dato che il cardinale arrivato al paese di Lucia in visita pastorale non aveva fatto il minimo cenno al passato. La partita però si rivela subito tosta, prima ancora di arrivare al sodo: “‘signor curato’, cominciò; e quelle parole furon dette in maniera da dover capire che erano il principio di un discorso lungo e serio”.
Servillo procede serrato, transitando da una all’altra voce dei protagonisti del confronto. Non li interpreta, li rende presenti. La familiarità con il romanzo e in particolare con quella pagina fa sì che le distanze si annullino anche per chi ascolta, seduto nella platea del Teatro Oscar di Milano gremito.
Servillo è stato invitato con felicissima intuizione da Luca Doninelli a leggere Manzoni, un autore che, come ha raccontato dietro le quinte, aveva cominciato ad amare fin dai primi tempi di scuola: infatti il suo maestro aveva la consuetudine di iniziare le lezioni leggendo una pagina dei Promessi sposi, in modalità empatica, anzi quasi estatica.
La modalità di Servillo è decisamente diversa: affronta la dialettica impari che si svolge nella canonica di don Abbondio facendo aderire meravigliosamente la sua voce allo stato psicologico dei due personaggi. Anzi agli stati psicologici, perché nel corso del dialogo le situazioni cambiano per entrambi, anche in modo poco prevedibile.
L’inizio è tutto sbilanciato dalla parte dell’accusa, con il cardinale che incalza con le sue richieste di precisazione rispetto a quanto accaduto, e don Abbondio che cerca di difendere le proprie ragioni e intanto fa i conti dentro di sé con il ribollire del risentimento verso chi aveva evidentemente raccontato a Federigo l’accaduto.

Manzoni con una scelta magistrale ad un certo punto inserisce una cesura nel dialogo. Dopo che il cardinale ha terminato la sua requisitoria, scrive: “E tacque in atto di chi aspetta”. Qui mette fine al capitolo XXV. Con l’inizio del successivo lo scrittore si prende una pausa e torna sul manoscritto ispiratore del romanzo, confessando una difficoltà nel proseguire. Ammette addirittura una “ripugnanza” nel dover andare oltre, perché le cose raccomandate dal cardinale sembran così perfette da risultare inapplicabili.
Poi però Manzoni se ne esce così: “Ma pensando che erano dette da uno che poi le faceva, tiriamo avanti con coraggio”. A questo punto Servillo si è concesso l’unico inciso personale, brevissimo, all’interno della lettura: “Qui c’è del genio”.
Il coraggio assurge così a categoria chiave della seconda parte del confronto. Il coraggio a cui Manzoni sa di dover far ricorso per portare ad una meta questo confronto bloccato. Di coraggio aveva parlato poco prima il cardinal Federico, quando in uno dei passaggi più belli aveva spiegato a don Abbondio che il coraggio, quello vero, non lo si ha per natura ma lo si deve chiedere a “Chi infallibilmente lo darà” (“Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? che non facessero naturalmente nessun conto della vita?”).
Il cardinale ne dà prova nel momento in cui tutto sembra precipitare per un’uscita impulsiva di don Abbondio: invece di continuare a puntare il dito sul povero parroco, inaspettatamente lo rivolge contro sé stesso e le proprie inadempienze. È il momento di svolta.
Non ci sono ribaltamenti un po’ miracolistici. In don Abbondio non fa breccia il rimorso per quello che aveva combinato, tuttavia in lui si fa largo “un certo dispiacere di sé, una compassione per gli altri, un misto di tenerezza e di confusione”. Una sottolineatura psicologicamente e umanamente meravigliosa. Manzoni si dimostra un genio nell’addentrarsi nei suoi personaggi rispettandoli fino all’ultimo e Servillo per una sera è stato il suo profeta.
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