“Come ogni cosa in questo paese” di Colum McCann, uscito nel 2000, raccoglie tre racconti ambientati nell’Irlanda del conflitto nordirlandese
“Siamo in una situazione molto complicata, ed è il momento veramente di svegliarsi […]. Dipende da noi raccontare le storie che possiamo raccontare nella maniera più potente possibile”. Così Colum McCann al recente Meeting di Rimini, durante una conversazione con Xavier Cercas che metteva a tema il rapporto tra scrittura e verità.
Al pari del suo collega spagnolo autore di Il folle di Dio alla fine del mondo, lo scrittore irlandese Colum McCann si è imposto recentemente nel panorama letterario italiano proprio per la potenza delle storie che ha saputo raccontare.
Come ha scritto in Una madre, “gli scienziati sostengono che il mondo sia tenuto insieme dagli atomi, il che è vero, naturalmente. Ma a tenere insieme il mondo sono anche le storie”. E infatti, nelle storie narrate da McCann, noi facciamo esperienza della fitta rete di vite ordinarie che si svolgono all’intersezione tra la grande storia e la condizione umana generando incontri inaspettati, capaci ogni volta di riaprire una nuova speranza.
Nel pirotecnico romanzo Apeirogon McCann ci accompagna dentro al conflitto israelo-palestinese attraverso l’amicizia di due padri cui sono state uccise le figlie; in Una madre veniamo a conoscere la vita del giornalista James Foley, decapitato barbaramente dall’Isis, proprio attraverso sua madre, il cui racconto ci è restituito in modo defilato, quasi giornalistico, ma anche con tutto il pathos e la ricchezza di sfumature psicologiche di cui solo uno scrittore di grande talento e sensibilità è capace.
Ma qual è il segreto, l’intuizione profonda che si racchiude nella scrittura così densa e ad un tempo fluida di McCann? Che cosa nei suoi romanzi rapisce noi lettori, catapultati di volta in volta in mondi diversi, nei quali sembra tuttavia pulsare un medesimo cuore? Qual è questo cuore pulsante della sua scrittura, capace di portarci nell’intrigo dei conflitti mediorientali o di immergerci, come in Lascia che il mondo giri, dentro alle depravazioni più meschine della società americana?
Sempre tuttavia per cercarvi, anche lì, una possibile luce. E quale luce? Da dove può nascere uno spiraglio di speranza nelle atrocità del conflitto israelo-palestinese, nell’ideologia disumana degli sgozzatori dell’Isis, nel degrado dello spaccio e della prostituzione nel cuore dell’opulento impero americano?
Un indizio dell’ispirazione più profonda di questo straordinario scrittore, irlandese di formazione e americano d’adozione, può esserci dato da alcuni lavori che precedono i suoi romanzi più noti. È il caso di tre racconti – due brevi, il terzo più ampio – pubblicati da Feltrinelli nel 2023 con il titolo Come ogni cosa in questo paese, ma che nell’originale inglese (Everything in this country must) risalgono al 2000.
Attraverso questi racconti McCann ci accompagna nell’Irlanda dei Troubles degli anni Ottanta, quando il conflitto tra unionisti protestanti e indipendentisti cattolici toccò uno dei massimi picchi di violenza e il cui tragico emblema è Bobby Sands, il giovane parlamentare militante dell’IRA morto nel carcere di Long Kesh il 5 maggio 1981 in seguito a uno sciopero della fame. La sua protesta estrema fu poi imitata da altri compagni di lotta.
Nei primi due racconti il conflitto rimane sullo sfondo, dentro a vite famigliari dell’Irlanda profonda segnate dal duro lavoro di campagna. Nel primo, una figlia assiste addolorata al rancore del padre che rischia la vita per salvare la sua cavalla finita nel fiume, ma che quando con qualche rischio viene soccorso da alcuni soldati inglesi non riesce a ringraziarli, lasciandoci intuire antiche angherie subite in passato.
Nel secondo racconto un ragazzo, il cui padre falegname è costretto a letto da un ictus, per racimolare qualche soldo accetta di aiutare segretamente la madre a costruire gli steli di bandiere che serviranno alla parata dei militanti protestanti. Padri che non riescono a perdonare e figli che ancora non conoscono l’odio.
Il terzo racconto rovescia invece questi rapporti generazionali: qui il padre, uomo retto morto ormai da tempo, appare solo a tratti nella memoria di Kevin, il figlio tredicenne che la madre, per sottrarlo alle violenze che insanguinano le città del nord, porta con sé sul mare presso Galway, nell’Irlanda indipendente.

Qui i due vivono provvisoriamente in un caravan a strapiombo sul mare, nell’attesa che le violenze si plachino. “Questa situazione non piace neppure a me. Ma anche altri stanno morendo. Altri innocenti”, dice lei al figlio arrabbiato, consapevole che dal dolore inferto non può che nascere nuovo dolore. E in effetti l’odio, nel nord, sembra non avere più argini su entrambi i fronti, spingendo il ragazzo a schierarsi: “Delle guardie carcerarie erano state uccise. Due tizi che scorrazzavano su un’auto rubata erano stati abbattuti a fucilate a Twinbroock. Una ragazzina che tornava a casa con il latte era stata ferita alla testa da un proiettile di gomma ed era in coma. Qualcuno aveva sgozzato un’intera mandria di bovini perché apparteneva a un allevatore cattolico, e le carcasse erano state disposte nel campo a formare la parola NO. Cercò di immaginarli, i capi di bestiame morti, la coda dell’uno nel sangue della gola dell’altro”.
Kevin sa che un suo giovane zio ha intrapreso lo sciopero della fame nel carcere duro dove è rinchiuso per possesso di esplosivi. A quel punto l’odio, respinto dalla madre, si radica sempre più nell’animo di Kevin, che nella sua fertile immaginazione di adolescente comincia a immedesimarsi giorno per giorno con la sofferenza dello zio: “si accarezzò la foto nel taschino e gli parve di muovere le dita sulle costole dello zio. Sporgenti quanto quelle di un cavallo affamato. Le ossa risuonarono come uno strumento musicale e, affondando di più le dita nel taschino, percepì l’acqua frusciare nella pancia di suo zio”.
Il ragazzo si lega, alla maniera dei sostenitori dell’IRA, una fascia nera al braccio e inaugura un’agenda in cui registrerà la progressiva perdita di peso e gli sbalzi di pressione sanguigna che segnano il deperimento dello zio. Giunge a figurarsi intorno al suo letto lo spazio angusto e invalicabile di una cella e segretamente sperimenta per due giorni un proprio personale sciopero della fame.
Con un crudo realismo che è assimilabile forse solo alla descrizione della grande fame nell’Ucraina degli anni Trenta del Vasilij Grossman di Tutto scorre, la penna di McCann ci pone così, attraverso il filtro dell’immaginazione viva di un adolescente, dinanzi all’atroce stillicidio della morte per fame: primo giorno, secondo giorno… cinquantacinquesimo giorno…
Mentre raccattava sul molo un mozzicone di sigaretta, Kevin “si chiese se a quel punto dello sciopero, il sessantunesimo giorno, suo zio stesse ancora fumando, poi chiuse gli occhi davanti a una visione precisa: suo zio sotto una luce al neon, disteso supino con gli occhi sgranati e fissi, le infermiere chine su di lui, amareggiate, le sacche per la flebo in attesa, come un pretesto contro l’estrema unzione, nessuna sensibilità alle gambe, alle braccia o alle mani, neppure alle dita dei piedi, le ossa orribilmente sporgenti dal petto, il debole battito del cuore contro la pelle, il corpo che ormai si nutriva delle proteine del cervello. Il ragazzo si asciugò le lacrime e gridò rivolto al mare, sputando in una lunga sequenza tutte le imprecazioni che conosceva”.
Quale luce, dunque, per il ragazzo inghiottito dal risentimento e dalla sete di vendetta? Nei due primi racconti, come nei romanzi successivi, l’aderenza obiettiva, senza aggettivi, della scrittura alla realtà porta comunque, dentro alle crepe, uno spiraglio di luce. Una luce che viene dalla testimonianza di padri, madri e anche figli che non intendono proseguire nella catena dell’odio, che sanno di poterla spezzare attraverso il gesto inaspettato di un’apertura, di riconoscimento della comune umanità che alberga anche nel “nemico”. Ma qui, dentro alla spirale indotta dagli opposti terrorismi, dov’è lo spiraglio?
Kevin ha anche incontrato, durante lo sciopero della fame dello zio, una coppia anziana di lituani che lo accolgono come un figlio. Il vecchio lo porta in mare sul suo kayak e attraverso di loro egli conosce una possibilità diversa, una nuova felicità, ma alla morte dello zio l’odio ritorna, prende il sopravvento su Kevin che, ormai incapace di riconoscere il bene ricevuto, scaglia la sua rabbia contro il kayak del vecchio, distruggendolo a sassate.
E tuttavia una pur flebile luce di speranza sembra affacciarsi anche per lui: è nello sguardo stupefatto e amorevole dei due vecchi portato su Kevin, quasi promessa di uno sguardo nuovo su di sé, mentre nel caravan la madre, inginocchiata, prega per il cognato moribondo e per il figlio ribelle.
Ecco allora la cifra forse più segreta dell’opera di McCann. Essa passa nel filo delle generazioni: fintantoché ci saranno padri o madri o figli, sembra suggerirci lo scrittore irlandese, o comunque persone capaci di uno sguardo paterno e materno come i due vecchi lituani, l’odio può non avere l’ultima parola, l’umano può ancora giocare una possibilità in questo nostro tempo di nuovo disordine mondiale dove perfino la fame indotta è usata come arma politica.
Solo se resta uno sguardo paterno/materno sul mondo, solo se questo sguardo trova chi è disposto a raccontarlo, allora “speranza e storia possono rimare”, come recita una poesia di Seamus Heaney citata in Una madre da McCann.
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