Desideriamo tutti essere realizzati e soddisfatti, oggi come un tempo, ma in che consista la felicità ed in qual modo essa vada perseguita varia molto a seconda del periodo storico e della cultura di riferimento. Contrariamente alla modernità, ad esempio, gli antichi filosofi greco-romani non ritenevano affatto che l’uomo fosse felice solo se in grado di godere/possedere un certo numero di beni materiali, ma che l’arte del buon vivere (l’eudaimonia) consistesse in virtù quali la conoscenza di sé, la capacità di far fronte alle avversità grazie ad una ben temperata saggezza e la costante aspirazione al bene.
Giovanni Cucci, nel suo recente saggio dal titolo impegnativo de: L’arte di vivere. Educare alla felicità (Àncora), si interroga su come all’inizio del terzo millennio venga invece considerata/rappresentata la felicità in Occidente; ed una delle prime riflessioni emergenti è che nell’immaginario collettivo essa sia solitamente associata al denaro, al successo e alla fortuna. Eppure sembra proprio che nei Paesi ricchi la gente non sia più contenta di chi vive nei Paesi poveri; basti guardare le impressionanti percentuali di suicidi e stati ansiosi/depressivi che emergono dalle statistiche sul disagio esistenziale dei cittadini europei; per non parlare dell’utilizzo di psicofarmaci, in crescita impressionante sia in Europa, ma soprattutto negli Usa.
Eppure, nota Cucci, “Uno dei simboli più radicati nell’immaginario dell’uomo moderno è l’associazione tra felicità e ricchezza, con i suoi molteplici derivati (consumismo, potere, accumulo)”. Tale rapporto si rivela infondato, tuttavia continuiamo purtroppo a credere/illuderci che non sia così, sperando che tanto denaro possa farci felici, mentre è solo un mezzo per ottenere agi confortevoli ma non indispensabili. Nessuno, mi sembra ovvio, pensa che l’indigenza sia una condizione auspicabile per una vita quanto meno serena, però Cucci rimarca che essere poveri non equivale ipso facto a essere infelici. O almeno tutto dipende da cosa intendiamo per povertà. Se ci manca uno scopo nella vita, scarse o nulle sono le relazioni sociali e familiari, se difettiamo della capacità di far fronte a insuccessi, lutti e sconfitte (la cosiddetta resilienza) allora sì che una tale carenza implica infelicità.
Uno degli aspetti maggiormente deleteri del ritenere che un cospicuo conto in banca produca senz’altro il benessere esistenziale è pensare ‒ scrive ancora Cucci ‒ “che tutto possa essere convertito in denaro, che tutto abbia un prezzo, dagli ovuli, ai reni, alle persone, allo svago. Ma quando ciò avviene, la qualità della vita tende a svanire, perché irriducibile alla dittatura del Pil”. Così, allorché l’uomo ‒ e la donna ‒ sono considerati una sorta di prodotti in vendita, vengono a scomparire alcuni tratti davvero umani e gratuiti, quali: “creatività, affetti, generosità, dedizione, passione, altruismo, intimità, tenerezza, condivisione”. Caratteristiche tipiche di una condotta all’insegna, se non della felicità, d’un comportamento magnanimo e ammirevole.
Una riflessione seria su cosa riteniamo possa farci felici non può fare a meno di porre in discussione i disvalori delle società occidentali capitalistiche: l’individualismo estremo, la rincorsa del successo ad ogni costo, la disattenzione per gli altri. E se fosse proprio la ricerca a tutti i costi del piacere coniugata al narcisismo, al malato-esasperato amore per se stessi la causa di tante frustrazioni ed insoddisfazioni? Cucci non sembra avere dubbi a tale proposito, se denuncia che “Il compito di massimizzare il piacere, come di minimizzare il dolore, finisce per decurtare aspetti essenziali della vita, come la tristezza, la fatica, il sacrificio, la rinuncia, spegnendo lo stesso piacere e il gusto di vivere”.
Sarà che è illusorio (impossibile) pensare ad una felicità ideale mai oscurata dall’ombra d’alcuna infelicità; mentre forse non incontriamo negatività o sventure che non racchiudano in sé un germe positivo o l’eventualità di coglierlo in ogni circostanza: pure la più apparentemente avversa. In altri termini: il bene e il male in sé (ossia absoluti, cioè slegati da ogni contesto) non esistono o sono mere astrazioni. Tutto dipende da come consideriamo/viviamo gli eventi. Per qualcuno scoprire dentro di sé un tumore può comportare disperazione, inazione e sfacelo; per qualche altro voglia di reagire, resistere al peggio e cogliere al meglio il presente.
Un’ultima considerazione assai condivisibile dell’autore, che cita il Nuovo Testamento osservando che, oggi al pari di un tempo, “C’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35). Ciò significa ribaltare l’atteggiamento predominante dell’homo occidentalis: un egocentrismo che lo spinge a credere semmai nell’esatto contrario. Come a dire: viva il dono, la gratuità, l’essere piuttosto che l’avere. Consapevoli che la pienezza del vivere si raggiunge solo non cercandola, anzi scordandosi di se stessi, rivolgendo l’io al tu, amando invece di voler solo venire amati. Infine un essenziale monito/suggerimento da meditare, che chiude il saggio di Cucci: “L’ostacolo più grande per essere felici è la resistenza a rivedere le nostre idee su di essa”.