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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Le “Ottave” di Cannone, disporsi ad accogliere l’epifania del mondo

  • Letture e Recensioni
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LETTURE/ Le “Ottave” di Cannone, disporsi ad accogliere l’epifania del mondo

Corrado Bagnoli
Pubblicato 1 Maggio 2025
jbc_corot_olevano_1827_arte

Jean Baptiste-Camille Corot, Veduta di Olevano (1827)

"Ottave" è il nuovo libro di poesie di Luigi Cannone: la parola come strumento per far fronte al continuo miracolo di ciò che accade

“Ci hanno lasciati qui, le mani nude/ e gli occhi dilatati nell’attesa/ d’un presente, d’un’infinita resa”. Con questi tre versi – che disegnano il perimetro dentro cui l’uomo deve imparare il suo mestiere di vivere e tracciano già il suo compito insieme a quello della poesia – si chiude la quinta delle cento ottave che compongono il nuovo libro di poesie di Luigi Cannone. Che s’intitola semplicemente Ottave (Puntoacapo editrice, 2025), presentandosi così, almeno apparentemente, come una sfida nella forma: un metro preciso, endecasillabi con rime in coda all’ottava che poi però, intorno alla metà del libro, scompaiono.


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Ma non si tratta di un gioco letterario. Piuttosto, lentamente, sempre più in profondità, in essa si legge il tentativo di fare fronte – proprio attraverso la forma chiusa, una misura della parola – all’indefinito della vita e di sé stessi, al mutevole dentro cui si è gettati. E di fronte al quale il poeta confessa: “Non so allora che un respiro di luce/ e la mia voce ed il mio dire scuro/ non so che questo specchio farsi muro”.  Nella non piena consapevolezza di ciò che siamo e di ciò che ci aspetta, si fa largo “il sospetto di un tempo/ perduto, d’un eterno dimorare/ all’imbocco di quel che eterno muore”.


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Intanto, nel continuo ripresentarsi della tensione tra il desiderio di esserci davvero e la coscienza che “vivere è questo muto passo/ l’azzurro del cielo, il peso del sasso”, ci si può lasciare vincere, si può desiderare di essere “anche noi tra queste foglie/ stanche e con la dolcezza d’una resa”.

Si può pensare di abdicare al mestiere di vivere perché non è facile restare vigili nell’attesa e non vedere compiersi la promessa: si può cedere, come a un presagio contenuto nel presente, all’idea che “Saremo la polvere sparsa ai campi,/ le stanze riscaldate, questo freddo/ che ci attende in fondo al nostro vagare,/ nulla più di adesso, altro il dilagare”.


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Ma non è questo sentimento della fine che prevale in questi versi. Il poeta accetta di camminare dentro la vertigine, vinto da ciò che esiste nell’istante: è la realtà che si fa presente, che si fa dono oltre ogni misura, oltre anche la misura della parola. Così, infatti, nell’ottava XXV riconosce: “ho imparato che piccole cose/ portano a sapere l’anima, il tempo/ che passa d’infinito mutamento,/ il chiaro tra due piogge, il sole, il vento”.

Se esiste un luogo in cui abita la poesia, sembra dirci Cannone, questo è il luogo in cui la tensione tra il mondo e il desiderio di scoprirne il segreto si acuisce. Potremmo dire, ancora con le sue parole, che la poesia assomiglia molto all’arrendersi “al perenne andirivieni di noi/ che non capiamo il senso del cadere/ e in tutto ciò qualcosa resta vivo,/ sospeso lungo gli anni che saranno/ ed è qui mentre la vita succede/ che il suo insistere ci trova perduti/ come d’estate i fiori in mezzo ai prati”.

Nell’ottava XXXVII troviamo un nuovo accento rispetto al gesto della resa appena citato e anche, forse, una diversa coscienza rispetto al tentativo della parola di trovare, anche nella misura e nel metro, un modo di contenere ciò a cui, invece, non ci si può che inchinare: “Inutile combattere la forma,/ meglio la grazia d’essere vissuti/ come al transito di un tempo infinito/ e sciolti a una dolcezza, a un accettare,/ aprirsi alla corrente e trattenere”. Dentro la vertigine dell’accadere, nell’accettazione del proprio oscillare si è immessi nella realtà degli istanti e delle cose che nell’istante vivono.

Se una verità esiste, anzi, come dice Cannone, se una verità “si partorisce”, è proprio qua, nel qui e ora dell’evento del mondo. E la poesia è ciò che mette sotto la luce questo evento: accompagna l’accadere ben sapendo che “Il punto è proprio quel che ci sovrasta,/ il tuffo dietro al grigio di ogni cuore,/ la goccia, la gronda, il suono del mare”.

Le Ottave di Cannone hanno il respiro e il passo di una ricerca spirituale, segnata sempre dalla coscienza della propria inadeguatezza, del proprio limite; talvolta soggiogata da certezze disperate, talvolta oppressa dal troppo premere della vita. Ma poi capace di fermarsi davanti a questa stessa vita, vinta dalla sua forza quasi gloriosa: “Gioco coi bimbi, rido, spezzo il pane… Esco di casa, vado a far la spesa… In cielo basse nuvole e uno stormo… Così dispongo i giochi dei miei figli/ al loro trascurabile candore/ e sono qui, in questa goccia di mondo,/ sull’orlo di un presente a cui mi arrendo”.

La poesia abita esattamente qui: è in questa sua disposizione all’accoglienza, nel riconoscere il suo debito nei confronti del mondo, nel suo essere epifania, è in questo che assolve fino in fondo il suo compito.

Che troviamo così nuovamente esplicitato in un’altra ottava: “Accade che un’ora lieve mi tenga/ ed io riesca a vedermi tra le cose/ lasciate qui nell’abisso che sono/ e che tutto questo basti a smentire/ l’idea di un Dio che giudica e punisce. Accade di guardarsi in uno specchio,/ di bere del vino all’orlo di un prato/ percorsi dall’eterno di un minuto”.

Il percorso di Cannone si può anche leggere come un itinerario tra questi due specchi, quello citato all’inizio della nona ottava e questo ultimo dell’ottava LXXVI: non rimanda alcuna immagine il primo, nell’altro invece ci si può guardare. La poesia non salva dal tumulto del tempo e del mondo, la poesia accetta di starci dentro. Nominando le cose, “ci insegna ad essere qui, ma partendo dal riflesso del cielo, non dovremmo avere paura del mondo,/ perché vivere è esistere cadendo…. Queste sono le cose, qui è la vita/ e il freddo che fa fuori e sa di terra/ il corpo tuo già nudo, di silenzi stellati”.

La ricerca di Cannone rimane tesissima sempre, non nega nulla, non esclude. E conduce però fino a spalancarsi alla meraviglia per l’esserci nostro e della realtà tutta.  Non è forse questo il compito della poesia? Quello di una semplicità arrendevole dello sguardo e quello di una carità, di un amore a ciò che allo sguardo si fa presente?

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