La raccolta "Poesie" di Gian Mario Villalta. Una mappa esistenziale segnata da un incontro di identità linguistiche e domande sul destino

In concomitanza con la 25esima edizione del “Pordenonelegge”, il festival letterario di cui è direttore artistico, Gian Mario Villalta è uscito con la raccolta Poesie (Garzanti, 2025), che ordina le cinque raccolte principali dello scrittore friulano, da L’erba in tasca del ’92 a Vose de vose/ Voci di voci (1995), a Vanità della mente (2011), a Telepatia, del 2016, fino all’ultimo Dove sono gli anni, del 2022.



Come scrive l’autore in una nota a Vanità della mente, in Villalta convivono l’esigenza di “tracciare una mappa e il suo ricorrente rarefarsi, perdere nuovamente i contorni. Tra la compulsione ad esporsi nella realtà e la certezza che sia del tutto vano, dare figura alla propria esperienza è irrinunciabile, anche quando si sente inadeguata, anche quando viene smentita ad ogni istante”.



Sono vistose in Villalta le istanze dell’interrogazione sulla propria identità e sulla consistenza dell’io: in una glossa a Panevin (poi in Vose de vose), l’autore fa notare che nel suo dialetto, affine più al veneto che al friulano, mi vale sia “io”, sia “me”, non essendoci in questa lingua un “io” che si contrapponga ad un “me”; “e forse è una ricchezza piuttosto che una mancanza”.

Da qui discende la ricerca continua di un dialogo con compagni di strada e maestri, come Zanzotto, Giacomini e Benedetti, o “figure care del vivere”, come il fratello morto, o la figlia adolescente, a cui è dedicata la bellissima sezione di Telepatia, La figlia che dice che è felice, esitante di pudica tenerezza.



L’interrogazione si fa più fonda nell’ultima raccolta, Dove sono gli anni, sempre rivolta a un tu: “Dove sono. / Dimmi soltanto dove sono ti prego”, ritmato dalle domande continue: “Chi l’è mi?” (Chi sono io?). Dove finisce l’io e comincia il tu? “Situ ti?” Chi che ti si?”; ed ancora, in un testo fondamentale, “Da senpre domandàrme, / questionàr chi l’è mi, quando ti / te sé ti, te sé ti, te sé ti” (tu sei tu); e, in un altro luogo: “Che cosa aspetto da sempre?”, in un interrogare sospeso tra la domanda di Leopardi (“Ed io che sono?”) e lo smarrimento metafisico di Caproni (“Se volete incontrarmi / cercatemi dove non mi trovo”), ma sono anche molto presenti gli echi del prediletto Paul Celan.

All’inizio di Telepatia, scrive: “Forse l’oscuro di ciò che chiamiamo / essere è appartenere / agli altri”, postulando la necessità del “noi”, “Prima persona plurale / modo incondizionato / tempo perfetto”.

Angelo Vaninetti, “Case” (particolare)

Questa ricerca ininterrotta di colloquio e di appartenenza arriva, nelle ultime poesie di Dove sono gli anni, a riprendere il Cantico dei Cantici, a sussurrare che “forte come la morte è l’amore”, per chiudere con “Ama il tuo tempo, difendilo”. Una tensione che gli fa scrivere in “questa lingua che non è mia / e mi fa appartenere”. E poi a dichiarare, durante l’isolamento da Covid, in cui ci siamo scoperti tanto bisognosi degli altri: “gli altri sono anche l’inferno, sì, sono / anche tutto, però”, con una netta presa di distanza da Sartre.

Come tutti i poeti dell’area veneto-friulana, Villalta mette al centro della sua opera i mutamenti subiti dal paesaggio di origine e la natura della lingua. Nato nel ’59 in un piccolo paese in provincia di Pordenone, ha avuto il tempo di vivere la fine della civiltà contadina, secondo Péguy “il più importante avvenimento della storia dopo la nascita di Cristo”; quel cambiamento radicale e impressionante, specialmente nel Nord-Est, raccontato da Pasolini e Camon; in Villalta, peraltro molto più giovane di costoro, senza i risvolti laceranti descritti da Scritti corsari e Il quinto stato; Villalta ne ha parlato soprattutto nel romanzo L’olmo grande, ma anche nella prefazione alla biografia di Camon di Filippo Cerantola, in cui, pur sentendo “mancare la terra sotto i piedi”, intuisce che un mondo nuovo può portare anche opportunità e miglioramenti.

Ma è la questione della lingua a imporsi: una lingua ibrida, divisa tra italiano e dialetto – il primo prevalente nelle ultime raccolte, il dialetto nelle prime – ma non sono rari i casi in cui le lingue sono mescolate, anche con altre, come l’inglese, secondo l’insegnamento di Andrea Zanzotto, di cui Villalta ha curato, insieme con Stefano Dal Bianco, il Meridiano Mondadori.

A tale corposa riflessione ha contribuito, dagli anni Duemila in poi, anche la produzione narrativa, che incrocia quella dei versi e dei saggi. Di fatto Villalta non sceglie, ma abita nella lingua: il dialetto non viene inteso ingenuamente come lingua della realtà, né lingua di poesia, ma viene immesso nell’italiano: le lingue migrano, sostiene lo scrittore, come le persone, in una poetica dell’impurità, avrebbe detto Saba. È nella lingua che avviene l’incontro tra le persone e le civiltà e queste non possono che contaminarsi a vicenda, in un passaggio continuo tra “lingua” e “voce”.

Fra i poeti contemporanei, Villalta spicca per questa fiducia nella parola, giustamente sottolineata da Massimo Natale nella bella e chiara prefazione: dove vi è parola, dice Villalta, “vi è la possibilità di un incontro, fosse anche soltanto ‘nella parola’, vi è ancora speranza, finché a questa parola qualcuno potrà ancora dare senso”.

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