"Non sapendo fare a maglia. Diario di un lettore compulsivo": il viaggio nella letteratura di Lodovico Festa è un esercizio sommo di libertà
Se Lodovico Festa ascoltasse musica con l’acribia e il trasporto intellettuale e sentimentale insieme con cui legge libri, romanzi, novelle e poesie, mi chiedo che cosa potrebbe scaturire dalla sua mente e dal suo cuore, tanto più ora che ho letto e riletto il suo libro dal titolo inquietante: Non sapendo fare a maglia. Diario di viaggio di un lettore compulsivo (Liberilibri, 2025) con prefazione di Mattia Feltri.
Sì, inquietante come uno di quei vecchi calepini misteriosi che, per sfuggire alla censura d’ogni sorta di potere ascoso, si confezionavano apponendo alle pagine prime, sempre perniciose, un titolo burlesco e dissimulatore, come in effetti è, beffardamente, l’elogio del ”fare a maglia”, sfregio “antifemminista” eloquente in un mondo in cui nessun umano, né donna, né uomo, fa più a maglia.
Che cosa ne sarebbe scaturito dall’ascoltare l’Introduzione all’Egmont di Beethoven o il mio amato Coro dell’amatissimo Berio o, ancora, Cathy Berberian con i suoi canti popolari trasfigurati dal più grande compositore del Novecento, appunto il mio indimenticabile Luciano Berio.
Il fatto è che Lodovico non ascolta musica, e che questo fatto incredibile sia vero, lo testimonia il mio vivere così lunghi anni la nostra amicizia, sia nei luoghi dove l’accumulazione capitalistica o la rendita fondiaria t’impongono di vivere, sia là dove, nelle isole felici della creazione del mondo che continua, te la godi in santa pace, lasciando che si accumuli altrove e siano accumulati gli altri.
Mi riferisco alla nostra amata isola dodecannesiana di Lipsi e alle isole greche dove abbiamo visto, insieme, crescere e rifiorire, via via, il frutto più bello di una vita come quella di Lodovico e Lidia: la bella e luminosa Federica, tanto amata con le sue creature che da infantili sono divenute adolescenti e che si preparano a stupirci con il loro slancio vitale.
Torniamo al punto.
Il cuore detta la penna guidata dalla mente lucida di un grande lettore. Un lettore come quelli che potevano tramandarci Chateaubriand e Madame De Staël, con il loro solo parlarsi per lettera di ogni cosa che sorgesse sotto le volte del mondo.
Così fa Lodovico: il romanzo, la poesia, sono l’occasione per far scaturire le pepite di un pensiero profondo e libero sempre, che ci dà forza per vivere nell’universo di banalità e di cattivo gusto in cui siamo immersi ogni giorno di più.
La poesia è la chiave di tutto, ma deve essere unita, nel cuore nostro di lettori, con l’amore di Lodovico per il grande Bardo, il più grande di tutti, la cui anima pensosa – e per questo Maestro indispensabile – guida Lodovico ogni giorno, trovando così quel sollievo nella vita che tutti ricerchiamo.
Penso spesso, oggi che mi sento sempre più vecchio di quel che sono (una sensazione che mi perseguita da quando son ragazzo) che senza la musica io sarei già disseccato dalla banalità della vita nonostante la letteratura: la mia amata letteratura, ad iniziare da quella dei francesi sette-ottocenteschi sino a Proust, che si leggono in gioventù e che si distillano nella vecchiaia, scoprendo sempre nuove perle di saggezza e di resistenza.

Per Lodovico, la letteratura, tutta la letteratura, è linfa vitale, perché a lui nessuna articolatissima espressione di essa è negata, dalla letteratura come ricerca sociologica alla letteratura come testimonianza antropologica.
Di qui il suo pensiero, che sonda i segreti del farsi continuo del mondo e che, senza posa, lo comprende…
Penso spesso, mentre mi assale la commozione, che io e Vichy ci conosciamo veramente da quarantacinque anni – le rapide, fuggitive esperienze conoscitive precedenti di giovani comunisti, torinese io, milanese lui (da sempre e per sempre milanese come Stendhal) non fanno testo – e in questi quarantacinque anni lui mi ha sempre parlato e ha sempre consigliato a Claudia e a me un nuovo libro da leggere, ed è stato presente con Lidia nei momenti cruciali della nostra vita.
La nostra prima lunga chiacchierata risale all’ottobre del 1980, là, al primo piano di via Andegari a Milano, in un inverno freddo e indimenticabile, perché ero appena giunto alla direzione della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli che per ventidue anni fu la mia vita. Lui era vicesegretario della Lega delle Cooperative della Lombardia. Da allora non ci siamo più lasciati. Gli innamorati romantici spariscono al nostro confronto.
Come sempre parlò poco, ma disse cose intelligenti, che mi “orientarono”, come si diceva allora, per lunghi anni nel mio “lavoro culturale” e nella “lotta” (anche questa una frase dei tempi, ma meno banale di quanto non si pensi).
Devo dire che qualche anno dopo, quando il PCI cadde nelle mani improvvide di dirigenti piangenti, le nostre strade politiche si divisero e continuano a divergere politicamente (anche se io – politicamente, s’intende – non so bene come mi sento, mentre lui mi pare stia benissimo), ma, ciò nonostante, Vichy continuò e continua a “orientarmi” ancor oggi per gli impervi viottoli della politica, anche se non più in quel tipo di lotta.
Ebbene, per me quel colloquio sul far del dopo cena (e scoprii solo dopo che per lui, quel fuori orario, fu un sacrifico grandissimo…) non è mai finito. Con Shakespeare e tutti gli altri Dei della sacra collina del sentire e del sapere letterario… che ci guardano, io credo, dall’alto.
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