In un secolo come l’Ottocento comincia ad affermarsi la modernità, il cui big bang è considerato dagli storici la Rivoluzione francese. La modernità è essenzialmente un lungo e lento processo di desacralizzazione del mondo. O meglio: di spostamento della sacralità dal divino all’individuo, al singolo. Da qui il positivo balzo in avanti del progresso, in campi essenziali come la politica, la società, la scienza. Se ciò che abbiamo di più sacro è ogni persona, comunque essa sia, occorre che le leggi, la struttura stessa della società, la protegga, la valorizzi, la liberi. E la curi in corpo e anima mediante lo sviluppo scientifico. La cosa strana è che quello stesso individuo, a due secoli dall’inizio del suo processo di liberazione, sia oggi nelle società più avanzate straordinariamente depresso, nevrotico, malato, impaurito. Come ha raccontato efficacemente Alessandro Baricco, la merce oggi più commercializzata è la paura (della guerra, della pandemia, dell’estinzione per collasso ecologico, ecc.). Il sacro individuo moderno è oggi essenzialmente libero, arbitro di sé stesso e terrorizzato.
Quasi profeticamente gli scrittori in cui il genio meglio si è espresso nel XIX secolo hanno opposto immagini che contraddicevano la modernità. Si tratta soprattutto di un filone di personaggi che percorre in pratica le letterature di tutte le lingue. In quella italiana il più conosciuto è Lucia, protagonista dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.
Lucia è clamorosamente antimoderna, per questo a molti, anche tra gli insegnanti, sta antipatica: la bollano come una bigotta, una contadinotta ignorante. Nel romanzo è vittima di ingiustizia (“questo matrimonio non s’ha da fare”), oggetto di desiderio prepotente e violento, indifesa e perfino drammaticamente sola e imprigionata. A tutte le sue disgrazie oppone una fiducia indiscutibile nella bontà dei disegni divini misteriosi, e nella giustizia celeste. E ciò le toglie la paura: questo è il tratto centrale e stupefacente di Lucia. Così retrograda, ancorata a valori che stanno tramontando, concreta nella sua certezza, non ha paura. È proprio questa caratteristica a stupire segretamente l’Innominato che l’ha incarcerata e che si scontra con la statura inspiegabile di quella donnacchera, come avrebbe detto un altro grande nostro narratore, Federigo Tozzi.
Praticamente contemporanei a Lucia stanno altri personaggi che le somigliano. Jean Valjean, de I miserabili di Victor Hugo, ad esempio. Ex galeotto, recidivo nel furto stavolta ai danni del vescovo della città di Digne Monseigneur Myriel, la sua vita viene stravolta dal perdono di questi, che addirittura gli regala il bottino di cui era stato derubato da Valjean stesso. Questo gesto toglie ogni paura, fino a rendere Jean capace di vivere unicamente per il bene degli altri e della verità, cosa che lo porta addirittura ad autodenunciarsi al giudice per rivelare la sua autentica identità.
In campo anglosassone troviamo Billy Budd, dell’omonimo romanzo di Hermann Melville, l’autore di Moby Dick. Si tratta di un marinaio buono e allegro, un puro di cuore, arruolato a forza su una nave da guerra britannica, che grazie al suo carattere è amato da tutto l’equipaggio, eccetto il perfido maestro d’armi John Claggart, il quale, invidioso, lo accusa ingiustamente. Billy Budd finirà impiccato all’albero di mezzana, metafora di come un certo tipo umano sia finito nella modernità.
Molto conosciuto è anche il russo Principe Myškin, l’Idiota di Dostoevskij, quello che dice la citatissima frase “la bellezza salverà il mondo”. Il fatto che la proferisca un “idiota” dovrebbe farci riflettere e soprattutto chiederci in cosa consista la sua idiozia. Siamo ancora una volta di fronte a un personaggio clamorosamente antimoderno: Myškin è un uomo buono, tranquillo d’animo, fiducioso nel prossimo, incapace di male, senza paura. Il suo arrivo, improvviso e un po’ misterioso, nella società nobiliare di San Pietroburgo corrotta, immorale e decadente, innesca il meccanismo del romanzo. Ancora una volta un puro di cuore si schianta contro la modernità e ancora una volta finisce male: la sua idiozia diventa pazzia di fronte all’uccisione della donna amata e ciò causa di nuovo il suo internamento in una clinica svizzera.
Interessante seguire la storia della parola “idiota”: per noi vuol dire ignorante, incapace, ma per gli antichi Greci l’idiota era il “privato”, cioè chi non possedeva, anche per incapacità, incarichi pubblici, responsabilità e potere; per l’Ottocento l’idiozia fu addirittura una malattia con cui si definiva un atteggiamento intellettualmente limitato. Per fortuna la scienza medica a superato certe definizioni discriminatorie, ma l’alone di incapacità di aderire e agire nella vita pratica, soprattutto sociale, alla parola “idiota” è rimasta.
Questi personaggi sono dunque tutti idioti, fuori corso rispetto alla modernità, fuori luogo rispetto alle società con cui si impattano: possiedono nei suoi confronti un’alterità che li farà essere ultimamente estranei. Insomma, la bontà, la fiducia, la misericordia, la nativa tenerezza dell’anima, la propensione a dare la vita per gli altri, fino al sacrificio, l’assenza di paura del mondo fanno letterariamente la loro comparsa proprio in quel tempo moderno che inizia a rigettarle, effigiate nei personaggi più geniali e insopportabili del secolo. Occorrerebbe indagare le ragioni di questa strana fioritura, che ancora oggi ci affascina e irrita forse perché parla alla parte oscura e inconscia di ciò che siamo diventati.
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