Nel suo prezioso saggio su “Il suicidio di Israele”, Anna Foa offre una lettura storica della tragica e pericolosa involuzione dello Stato ebraico
Gaza brucia, con il consenso aperto della presidenza USA, il cui segretario di Stato Marco Rubio negli stessi giorni dei preparativi era a Gerusalemme accanto a Netanyahu. Si compie così l’atto finale, qualcuno direbbe “la soluzione finale”, alla luce anche della definizione di “genocidio” data in questi giorni dalla commissione d’inchiesta dell’ONU.
Un atto finale che oggi colpisce il cuore di Gaza e che però già si intravvede anche per i territori della Cisgiordania.
L’espulsione completa della componente araba da Israele è infatti invocata ormai da tempo dall’estrema destra israeliana, contro l’antico sogno di uno Stato binazionale dei sionisti socialisti fondatori dello Stato di Israele nel 1948, e contro il progetto dei “due popoli, due Stati” perseguito dagli accordi di Oslo del 1993 tra il leader dell’OLP Yasir Arafat e il premier laburista Yitzhak Rabin.
Questi accordi sancivano la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), primo embrione di uno Stato palestinese che in futuro avrebbe governato i territori occupati nel 1967 con la guerra dei Sei giorni. In quella guerra Israele, per difendersi dalle provocazioni egiziane, aveva attaccato Egitto, Giordania e Siria, annettendosi, con Gerusalemme, le terre fino al Giordano e le alture del Golan.
Come ha scritto Anna Foa: “Una guerra cominciata come difensiva si era trasformata in offensiva e aveva portato a una vittoria che andava ben oltre il previsto”. Da qui la radicalizzazione del conflitto con i palestinesi con la prima Intifada e poi la tregua con i già richiamati accordi di Oslo, oggi però lontani anni luce.
La Striscia di Gaza, restituita ai palestinesi nel 2005 da Ariel Sharon per limitare la crescita di popolazione araba entro i confini di Israele, divenne così il terreno favorevole per imporre un cambio di dirigenza palestinese. Se ne avvantaggiò Hamas, sostenuta da Israele dopo la guerra dei Sei giorni per la sua attitudine prevalentemente sociale e religiosa, solo in seguito radicalizzata anche politicamente.
Ma come è stato possibile tutto questo? E quali speranze ci sono di uscire da una logica di totale annientamento dell’altro? Sono domande che troviamo nel piccolo e denso libro di Anna Foa, Il suicidio di Israele (Laterza, 2024), da cui abbiamo tratto la citazione. L’autrice, le cui radici famigliari e culturali sono nella diaspora ebraica europea e nella resistenza al fascismo, ci introduce alla storia del sionismo, le cui radici sono tutte dentro alla diaspora europea della seconda metà dell’Ottocento e il cui punto di svolta è la fondazione dello Stato di Israele, che trasformò il sionismo da lotta ideale a pratica e ideologia statuale.
Anna Foa preferisce parlare di “molti sionismi”, invitandoci a riconoscere, fuori da ogni semplificazione, i continui mutamenti delle diverse identità che albergano nella multiforme realtà israeliana come anche, peraltro, in quella palestinese. Mutamento di identità in primis dello Stato di Israele che, dai primi intenti di creare uno Stato democratico binazionale con piena ed eguale cittadinanza per tutti, si è trasformato via via in regime di occupazione e infine in “Stato ebraico” esclusivo, aggressivo verso le identità non ebraiche, come sancito dalla Basic Law: Israel as the Nation-State of the Jewish People, legge varata nel 2018 da Netanyahu.
Essa proclama che Israele è focolare storico e dimora nazionale del popolo ebraico, e che il diritto all’autodeterminazione nazionale in Israele spetta solo al popolo ebraico.
Questo mutamento porta a un travisamento dell’originale sionismo, marcandolo in senso etnico-religioso fino al fanatismo di quei partiti nazionalisti religiosi, rappresentati al governo da due ministri, che dopo più di due millenni vorrebbero fa risorgere la Grande Israele biblica dal Giordano al mare, espellendo ogni presenza non ebrea e ricostruendo il terzo Tempio in Gerusalemme su quella spianata del tempio intorno a cui con fatica convivono ancora oggi religioni diverse.
I recenti fatti di guerra alla popolazione civile, uniti alle violenze crescenti da parte dei coloni in Cisgiordania sostenuti dal governo e dall’esercito, sembrano rientrare esattamente in questo folle piano.
Dentro al complesso mosaico della società israeliana trasformata nel tempo dalle nuove ondate migratorie – dall’Europa, dai Paesi arabi dopo le varie guerre e dalla Russia –, Anna Foa ci guida a rinvenire i semi, minoritari e inascoltati, di una cultura di convivenza e di democrazia che alberga, quasi sepolta, tra gli eredi più autentici dell’antica Yishuv, l’insediamento degli ebrei immigrati nei primi decenni del Novecento che avevano sperimentato una lunga convivenza con la popolazione araba preesistente alla nascita dello stato di Israele.
Ma “come vincere la pace dopo la guerra?”, si chiede Foa, citando la posizione che assunse il filosofo Leibowitz, “la coscienza di Israele”, un ebreo ortodosso di Riga emigrato in Palestina durante lo Yishuv che negava che ci fosse un diritto divino degli ebrei alla terra e che dopo la guerra del 1967 giunse a dire che “l’occupazione avrebbe avvelenato l’animo degli israeliani trasformandoli in ‘giudeo-nazisti’”.
Erano parole forti. Eppure bisogna ricordare che esse hanno origine in Israele sulla bocca di “personaggi che certo non possono essere accusati di antisemitismo e preoccupati in primo luogo dei principi morali degli ebrei”. Anche altre voci si leveranno in seguito nella cultura ebraica per invocare un futuro diverso tra i due popoli: tra tutti, Martin Buber, Amos Oz, David Grossman, tutti profeti “in questo momento sconfitti”.
Non manca, nel libro, un approfondimento del rapporto tra Shoah e Stato di Israele. Se all’inizio la Shoah era solo uno dei motori che spinsero a rafforzare il movimento sionista, l’assunzione consapevole della memoria della Shoah da parte di Israele è però databile soltanto a partire dal processo a Eichmann del 1961, che in qualche modo riconciliò il difficile rapporto tra i sopravvissuti della diaspora europea e il mondo israeliano sionista. Il processo a Eichmann rappresentò tout-court, sostiene Foa, un “processo alla Shoah”.
Ma dentro a tutti i mutamenti del mondo ebraico-israeliano sta anche il mutamento dell’identità palestinese, la cui nascita precede il 1948, avendo radici “nelle trasformazioni indotte dalla modernizzazione dell’Impero ottomano e dalla rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908”.
In questa storia profonda, aggiunge Foa, “la Nakba [‘Catastrofe’, riferita alle espulsioni del 1948] con la cacciata dalle terre, dalle città, alle case, con le guerre e l’esilio, ha una parte grandissima nella memoria identitaria dei palestinesi di oggi, siano essi cittadini israeliani, semplici residenti come a Gerusalemme est o appartenenti alla diaspora”, e “come la Shoah è stata, dopo il processo Eichmann, il cuore dell’identità ebraica israeliana, così la Nakba è stata il cuore di quella palestinese”.
Due memorie, due identità molto simili ma radicalmente contrapposte, scrive Anna Foa, ponendo la grande questione: “Lo sarà sempre o esiste una possibilità di dialogo anche per identità e memorie? Ma è possibile conciliare la memoria con la giustizia nel momento in cui una delle due vittime è anche la vittima dell’altra, come nel caso dei palestinesi?”.
Nel realismo con cui descrive il chiudersi di ogni prospettiva di pace e convivenza, Foa conclude tuttavia questo piccolo libro, che ha ben meritato l’inatteso premio Strega 2025, con parole di fragile speranza: “Non possiamo dare per scontato che l’odio lasciato da tutti questi traumi cesserà un giorno. Ma non ci sono altre strade che questa”.
Di questa strada, alternativa alla trasformazione di Israele in Stato autoritario, Anna Foa indica un modello ideale e dei testimoni. L’ideale è il “post-sionismo”, l’idea “che Israele, nato nel 1948 come Stato nazione del popolo ebraico, abbia svolto il proprio compito e debba evolvere […] in uno stato democratico per tutti i suoi cittadini”. I testimoni sono i militari che rifiutano di partire per Gaza preferendo la prigione, sono i genitori che si organizzano in associazione per invitare i figli a rifiutare di combattere in questa guerra che stravolge il volto di Israele. Piccoli esempi che non possono non far ricordare che la Shoah deve essere “un monito per tutti i genocidi”, affinché non debbano “succedere più a nessuno, non ai soli ebrei”.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.