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Home » Cultura » LETTURE/ Mordecai Richler, l’esodo fondamentalista da ogni ortodossia

  • Cultura

LETTURE/ Mordecai Richler, l’esodo fondamentalista da ogni ortodossia

Domenico Bilotti
Pubblicato 13 Novembre 2024
New York (foto R. Maniscalco)

New York (foto R. Maniscalco)

Mordecai Richler, soprattutto con “La versione di Barney”, diventò alla fine degli anni 90 oggetto di culto. Che ne è rimasto oggi?

Mordecai Richler (1931-2001) fu ritenuto da moltissimi, per un breve periodo tra la fine degli anni novanta e l’inizio degli anni duemila, il vecchio saggio dello Zeitgeist: capace di interpretare e vivere lo “spirito del tempo”, perché quello stesso spirito aveva anticipato, preceduto, contribuito attivamente ad istituire. Erano gli anni nei quali nelle biblioteche e nelle librerie – queste odierne sconosciute – si faceva la fila per una copia de La versione di Barney, un geniale romanzo anomalo che dettò un immaginario, diventò un bestseller e generò un film di discreto successo (alcuni milioni di dollari, i due terzi dei quali intascati proprio in Italia).


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Il punto è che Richler non aveva inventato granché: dai tempi del gentiluomo Tristram Shandy, ideato da Laurence Sterne alla metà del XVIII secolo, la letteratura ha generato senza soluzione di continuità eroi tra il dandy e il bizarre, corrosivi, favolistici, tumultuosi. In una mescolanza di incubi privati, slang di quartiere, allucinazioni (non di rado alcoliche) e sciarade ininterrotte, sbraitando accuse indistinte al senso morale comune: quello, per sua definizione pruriginoso e stantio, sorpassato e asfissiante; la critica contraria, tuttavia, a propria volta manierata, routinaria, già sentita.


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E proprio quello era ciò che cercava lo spirito del tempo a fine anni Novanta: non c’era stato l’11 Settembre, e nemmeno il 7 Ottobre; si parlava di Organizzazione Mondiale del Commercio, ma la Cina non faceva paura e la Russia sembrava finalmente attaccata al treno occidentale, come la Turchia. Questo apparente trionfo liberale smuoveva la coscienza dei liberal, orfani delle narrazioni su cui si erano formati: il libertarismo di destra era dovuto scendere a patti con lo Stato, accettandone in sostanza codici e canoni; quello di sinistra si rifugiava nell’alter-mondialismo perché aveva perso la capacità di vivere il suo ambiente, il suo quartiere, la sua realtà.


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Richler arriva buon ultimo e in un certo senso davvero prima: aveva creato un suo pubblico da tempo. Il primo successo (stavolta solo americano) era stato L’apprendistato di Duddy Kravitz, altro personaggio memorabile e a memorabile rischio di confusione col vissuto del suo autore, che, davanti a tanto globalismo e a tantissima vanagloria cosmopolitica, in fondo faceva il flaneur dagli spalti rassicuranti dei soliti vicoli, locali, negozietti, edicole, scantinati, ristoranti. Un libro del 1959 che non a caso in Italia viene pubblicato, con intuito e qualità, dai lungimiranti tipi di Adelphi nel 2006: a metà strada tra il romanzo e il film che segnano l’eresia (apparentemente) anarchica e antagonista di quella generazione.

Da un certo punto di vista, il Richler degli anni Cinquanta e Sessanta è già persino più dotto dell’editorialista enciclopedico che sarà negli anni Ottanta e dell’oggetto di culto che diverrà a fine secolo. Lì davvero le posizioni sono scomode: si scaglia in anticipo su tutti contro l’ebraismo ortodosso, soprattutto quello non israeliano, che nel resto del mondo è in effetti e soprattutto agenzia educativa e narrazione storica. Si scaglia contro la cultura della religiosità ebraica in quanto tale, ma la sua origine gli aliena ogni facile accostamento di antisemitismo (non che qualcuno non ci provi). E in anticipo su tanti critici o pentiti del multiculturalismo, Michael Ignatieff e Ian Buruma su tutti, prende di mira il multiculturalismo del Canada francese, fondato sull’imperativo di includere chiunque; individui che poi, unendosi solo con i loro simili, formeranno le celle di un alveare.

Nella critica di Richler, del resto, non manca l’attacco all’ebraismo secolare, mondano, completamente adagiatosi nell’American Dream del successo a oltranza. Titoli come Quest’anno a Gerusalemme, il dolente St. Urbain’s Horseman, che commemora i romantici legati alle categorie belliche del fascismo e dell’antifascismo, e proprio i due capolavori di Barney e Duddy, scritti a quarant’anni di distanza, sono letture acide, ritmate, ammirevoli. Oggi però non possono non sembrare pagine d’archivio, in un mondo in cui il fondamentalismo è il relativismo a ogni costo (l’islamista che assegna a sé il diritto di uccidere, il complottista che si sente l’unico in grado di giudicare).  E la sua eresia contro gli assoluti è forse scolorita. La bella letteratura tuttavia sopravvive, e per fortuna, al vuoto di spirito critico che denuncia.

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