Ripartire? Sì, ma come? Puntando verso quale approdo? Il lento declino delle spinte più aggressive del contagio epidemico sta mettendo faticosamente in moto i primi, incerti tentativi per abbozzare le vie di un problematico ritorno alla “normalità”. Sembra comunque già del tutto evidente che la ripresa sarà difficile e travagliata: nel momento in cui molte posizioni acquisite sono messe a rischio, l’emergenza che stiamo attraversando diventa l’occasione di una grande verifica collettiva, nella quale ragionare su cosa si dovrà ripristinare e cosa invece è giusto provare a correggere o sostituire, cosa recuperare e cosa demolire, nello sforzo di arrivare a un assetto meno viziato dalle patologie emerse nelle fasi più recenti della storia.
L’eccezionalità del tempo di crisi sollecita un impulso creativo di riflessione e di progettazione del nuovo, che può sfociare nell’apertura di strade inedite evitando di rinchiudersi nello schematismo cristallizzato della semplice restaurazione del passato. Può rifiorire il coraggio di un pensiero ardito, anche molto critico e ambiziosamente radicale, che lotta per articolarsi rompendo i condizionamenti del politically correct e, più ancora in profondità, i luoghi comuni di un’omologazione di massa tendente a soffocare le identità particolari, che spegne le diversità e tutto livella nella linea della riproduzione autoritaria di presupposti ideologici mai sottoposti a vero controllo. Uno stimolo intelligentemente provocatorio, in senso alternativo, viene ora dal volume di Giulio Sapelli, 2020. Pandemia e Resurrezione, arricchito da preziosi contributi di Giuseppe De Lucia Lumeno e Alessandro Mangia (GoWare-Guerini e Associati).
Il punto di partenza è l’umiltà di un intransigente realismo. È la realtà che fissa, ostinata, le circostanze in cui si deve operare: bisogna accettare di fare i conti con il suo scenario, anche se ostico e deludente, perforando lo schermo illusorio dei falsi miti che alimentano solo presuntuose chimere. Guardando in faccia la realtà del presente, non si può ignorare lo spessore del dissesto che l’attraversa: l’assalto del coronavirus ne è adesso la punta più impressionante, ma la morsa della pandemia è solo l’apice di un morbo che ha intaccato un corpo già pesantemente malato.
Sapelli e gli altri collaboratori del volume documentano con totale franchezza gli aspetti di una sofferenza quanto mai estesa e capillare, che determina la fragilità di un paesaggio sull’orlo dell’implosione. La ragione ultima di ciò è ricondotta al fallimento dell’ordoliberismo su scala planetaria e nei suoi riflessi europei: la logica dei fatti economici e sociali ha mostrato l’ingenuità dell’aver voluto attribuire allo spazio egemonico conquistato dalle élite del capitalismo finanziario dell’Occidente la virtù di produrre automaticamente progresso e sviluppo a beneficio del mondo intero. Alla crescita delle ristrette classi “alte” del Nord, avanguardia di un processo di globalizzazione che ha toccato solo i piani più elevati delle interconnessioni tra i popoli e gli Stati, hanno fatto da riscontro una diminuzione sensibile delle politiche di welfare e uno squilibrio sempre più accentuato rispetto alle possibilità di accesso alla ricchezza e al potere delle parti respinte ai margini della competizione internazionale. Sottosviluppo, povertà diffusa, nuove forme di dominio rapinatore sono i risvolti materiali di una “crisi di civiltà” che appiattisce e desertifica anche il mondo dei valori, le capacità di resistenza dei soggetti umani, la ricchezza delle tradizioni etico-religiose, le strutture edificate per inquadrare le relazioni tra gli individui e governare le loro reti di interscambio. Sapelli arriva a denunciare che ci troviamo da tempo “in uno stato di pandemia culturale catastrofica” (p. 85).
Il tracollo si può ancora evitare. Ma la condizione perché non si arrivi al collasso è prendere spunto dalla durissima prova a cui siamo messi di fronte per lanciarsi in una capacità di “innovazione globalmente intesa”, che è “la sola via di salvezza che abbiamo” (p. 23). Le tendenze prevalenti dell’economia, della politica e della cultura si orientano in direzione decisamente contraria. Tuttavia la strada della trasformazione è l’unica che possa introdurre spiragli di manovra per far uscire la nave dal mare in tempesta in cui è scivolata, aggirandosi tra scogli insidiosi.
Nel libro, si indica quello che deve essere il cuore di ogni tentativo di fuoriuscita dal marasma. Occorre abbandonare definitivamente l’idea che l’economia sia capace di autoregolarsi, in modo da condurre la pressione degli interessi a generare per energia propria la spartizione equilibrata di un bene condiviso. La realtà dei fatti ha smentito questa visione apologetica del modello oligocapitalista dominante. Le dinamiche materiali della vita economica e delle relazioni sociali vanno invece guidate dagli attori umani consapevoli. E il livello in cui deve tornare a coagularsi la capacità di governo della res publica non può che essere quello della politica, restituita ai suoi fini più autentici.
Ma perché ritrovi il vigore della sua autorevolezza dimenticata, la politica deve tornare a saldarsi con la vita concreta delle comunità organizzate entro cui i complessi umani si sono raccolti attraverso lo sviluppo storico dell’Occidente moderno: quello che ha fatto maturare l’impianto degli Stati come struttura fondamentale di raccordo per sviluppare un’azione efficace di indirizzo della convivenza nello spazio pubblico, compresa quella dei diversi agglomerati statali in dialettica tra di loro, riconducendoli negli argini di un ordine il più possibile concordato e ragionevole, innervato da un diritto che non sia l’espressione di una forza arbitraria di comando, ma il frutto della libera elaborazione delle norme riconosciute necessarie per la tutela dell’interesse collettivo, ancorate ai fondamenti di un ethos inscritto nella “costituzione materiale” di una comunità organica di persone, comunità e istituzioni.
La scommessa di fare leva sul rilancio dello Stato di diritto e sulla difesa del suo positivo interesse nazionale primario, inteso come un bene collettivamente integrato, “superando ogni sua odierna demonizzazione” (p. 26), è l’aspetto forse più sorprendente del discorso a più voci intrecciato in questo volume. Non si tratta, è subito evidente, di una discutibile esaltazione del monopolio dirigista dei modelli di centralizzazione burocratica, come emerge, per esempio, dalla critica serrata rivolta alla linea adottata dalle autorità di governo italiane per fronteggiare i guasti dell’attuale epidemia. Oppure come insegna, ancora, l’esplicita demistificazione del “sogno europeo”, ridotto a mascheratura retorica del progetto egemonico delle “potenze di terra” del centro Europa e sovrapposto, complice lo strapotere di una nomenclatura funzionariale autolegittimata, al mosaico dei soggetti statali subordinati, espropriati di una porzione sempre più cospicua dei loro diritti di autodeterminazione.
La riscossa che viene invocata è quella di una politica “umanizzata”, resa strumento per la tutela del bene e degli interessi autentici di coloro che vi si affidano. Per strutturarsi, si chiarisce che essa ha bisogno di ristabilire il legame di stretta implicazione con l’universo sociale che è largamente venuto meno nel malessere dei sistemi democratici, compreso in prima linea il nostro, e che solo può garantire quella base di reale conoscenza tale per cui produzione delle leggi ed esercizio della governance si concepiscano fino in fondo al servizio delle comunità di cui sorreggono i destini.
La strada da imboccare è opposta a quella degli individualisti ripiegati sulla difesa a oltranza delle loro rendite parassitarie o degli esclusi-ribelli trascinati solo dal risentimento vendicativo e giustizialista, proiettati al centro della scena dopo la crisi diffusa e lo smantellamento pratico dei partiti di massa legati alle matrici delle ideologie politiche tradizionali.
La ristrettezza della progettualità strategica, l’esasperata conflittualità interna e l’assoluta modestia delle capacità operative delle moderne classi politiche che “si trovano alla cuspide delle macchine governative deliberanti-amministrative” (p. 33), sempre più spesso dominate da “cacicchi a geometrie variabili sottoposti a fortissime influenze esterne” (p. 76), sono sotto gli occhi di tutti. Una volta di più si capisce, osservando le estenuanti diatribe degli ultimi mesi, che la via di uscita non può essere altro che il reintegro di “fattori culturali” diversi nell’esercizio del “mestiere” della politica. È la cultura, la “cultura in senso antropologico”, intesa come l’insieme delle risorse dei soggetti umani (visione del mondo, fedi, ideali, saperi, competenze), “che determina l’economia” (p. 41), non viceversa. Le regole attuali della convivenza sociale, in Italia, nel cerchio più largo della comunità europea, nell’orizzonte disteso del mondo, possono cambiare se scatta una volontà politica diversa, a cominciare dai corpi e dalle comunità della società civile in cui dovrebbero immergersi le radici primarie di ogni forma di leadership.
La salvezza è sempre alle porte, anche nelle situazioni di disagio più buie e pericolose. Ma perché si spacchino le prigioni delle forze che la tengono prigioniera, occorrono il salto di immaginazione e un sussulto di intraprendenza che reintroducano la tensione di una sana vena “utopica” (p. 84). Solo la forza di un ideale a misura di uomo può battere in breccia l’imperialismo del “Regno della Quantità” eretto a fulcro di dominio tendenzialmente universale (Mangia, pp. 97 ss.). L’utopia storicamente configurata è l’unica arma che possa contrastare la dittatura spietata dei numeri con la loro ratio politica “contabile”, ristretta all’ambito limitato dell’avere e dello sfruttamento intensivo dei valori accumulati.
Reagendo a questo totalitarismo strisciante che uccide l’etica nello stesso momento in cui svuota il diritto e la politica, secondo modelli così congeniali al nuovo dispotismo mercantilizzato che avanza ogni giorno di più dal lontano Oriente, ci si può mantenere all’altezza della tradizione più nobile dell’Occidente. Se non ci arrendiamo ai disastri che rischiano di uccidere la speranza, si potrà forse tentare di ricollocare qualche mattone di vera ricostruzione nel vuoto desolante creato dall’assenza dei “presupposti” che “lo Stato liberale secolarizzato [da solo] non è in grado di garantire” (Böckenförde). Anche dopo Maastricht, dopo le “grandi cesure” della storia degli ultimi decenni. E a maggior ragione dopo l’ondata subdolamente incontenibile di un attacco alla salute pubblica che resta per ora una minaccia sospesa nell’aria che si respira.