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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Rampini e la fine dell’Occidente: dove ci porta il “suicidio” americano

  • Letture e Recensioni
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LETTURE/ Rampini e la fine dell’Occidente: dove ci porta il “suicidio” americano

Angelo Campodonico
Pubblicato 10 Giugno 2022
Guerriglia urbana a Minneapolis dopo l'uccisione di George Floyd (LaPresse)

Guerriglia urbana a Minneapolis dopo l'uccisione di George Floyd (LaPresse)

Federico Rampini in "Suicidio occidentale" si sofferma sulle ragioni della possibile fine dell'Occidente, a partire dagli Usa

Benché si debba giustamente diffidare della frequenza con cui i giornalisti noti al grande pubblico pubblicano libri, il volume di Federico Rampini, per la competenza dell’autore su un tema complesso, è uno di quelli che fa eccezione.

In Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori (Mondadori, 2022), egli si sofferma sulle ragioni della possibile fine dell’Occidente. La tesi fondamentale del volume è che una civiltà finisce quando disprezza il proprio passato. E questo non avviene oggi, per esempio, in Cina o in India, ma in Occidente e, innanzitutto, negli Stati Uniti.


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La nostra è una civiltà che, a differenza delle altre e anche di quella cristiana al suo albore, si vergogna della propria storia. Costantino, infatti, non demolì la memoria di Roma, pur aderendo al cristianesimo. Essa rimase viva nei secoli favorendo continuamente nuove rinascite.

Rampini, partendo soprattutto da un’analisi della società statunitense che conosce bene di persona, individua la presenza di una forte tendenza culturale ad esaltare unilateralmente i pur sacrosanti diritti delle minoranze razziali, sessuali, eccetera, condannando il passato bianco che, da Colombo in poi, avrebbe portato alla loro emarginazione e al loro sfruttamento. Inversamente non si nutre un’altrettanta attenzione alle crescenti sperequazioni sociali che indeboliscono da tempo la classe lavoratrice e la classe media. Esse si accompagnano alla crescita del capitalismo finanziario, alla burocratizzazione della società e a una crescente tendenza anti-meritocratica a ereditare le posizioni di potere all’interno della società.


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La tendenza a cancellare il passato (la cosiddetta cancel culture) si baserebbe, in primo luogo, su ragioni deboli sotto il profilo culturale. Per esempio, come si documenta nel libro, la schiavitù, che era presente massicciamente nella storia americana ed europea, non è un fenomeno soltanto occidentale, ma era diffuso in tutte le civiltà, a partire da quella araba e africana. Così pure la forte diminuzione del numero degli indigeni americani dopo l’arrivo degli europei non fu dovuta tanto agli eccidi da parte dei conquistadores e al loro sfruttamento da parte dei bianchi, quanto alla diffusione di batteri e virus ai quali non erano abituati. Per quanto riguarda poi l’attuale emergenza climatica, che è certo una bandiera dei progressisti, essa in molti casi non è dovuta solo all’inquinamento crescente, ma anche ad altri fattori (p. 16). L’immigrazione, a differenza di quanto propagandato dalle nuove élites, non sarebbe da considerarsi solo un bene, ma causerebbe effettivamente gravi problemi alle classi lavoratrici “bianche” (p. 36). E così via.


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In secondo luogo, la tendenza presente nella società statunitense a sottolineare unilateralmente l’emarginazione delle minoranze etniche, sessuali eccetera (quella che viene chiamata cultura “woke”) nasce anche dal fatto che essa si traduce in un’operazione economicamente conveniente per le élites “progressiste” che governano da anni le grandi multinazionali del capitalismo digitale e che trovano una crescente sponda fra gli intellettuali, nelle università e nei giornali. Permetterebbe loro, infatti, di dimostrarsi attente alle problematiche sociali e dei diritti di certe classi escluse e, quindi, con la coscienza pulita, senza dover affrontare i gravi problemi economici rappresentati dalle sperequazioni sociali determinate anche da loro stesse e che sono di più difficile soluzione.

Ciò spiega a suo tempo la vittoria di Trump. Rampini, pur rivolgendo i suoi strali soprattutto alla sinistra illiberale, non è tenero neppure nei riguardi della destra americana che è sempre meno moderata e della comune tendenza ad esportare la democrazia con la forza. Alla destra oscurantista, che decise di uscire dagli accordi di Parigi sul clima, si contrappone un ultra-ambientalismo altrettanto fazioso (p. 123). Destra radicale e sinistra radicale farebbero alla fine lo stesso gioco. Esse snobberebbero di fatto molte contraddizioni presenti nella società statunitense.

Sotto il profilo culturale e filosofico Rampini vede l’origine profonda di questo atteggiamento di disprezzo del passato nel radicalismo della cultura puritana che è alle radici degli Stati Uniti (si pensi, per esempio, alla triste vicenda del processo alle streghe di Salem ricordata dall’autore). Tale radicalismo si manifesta in una rivendicazione di purezza, in una difficoltà a mettere in discussione le proprie idee e ad imparare dagli altri e dalla storia (p. 67), ultimamente in una forma di neopaganesimo profondamente anticristiano (e quindi necessariamente ostile al proprio passato), che pone al suo centro la natura in certo qual modo divinizzata.

Verrebbe da aggiungere che questo riconoscimento di una radicale colpevolezza – ignoto ad altre culture – sarebbe da attribuire, secondo René Girard, che l’autore non cita, proprio ad una corruzione della stessa tradizione cristiana. Nota Rampini, il quale viene da una lunga militanza di sinistra e aderisce alla sinistra liberale, ma non ad un credo religioso, che di fronte a questo rischio di radicalismo i paesi di tradizione cattolica, più attenta alla tradizione umanistica e nel complesso più equilibrata, ne sarebbero maggiormente immunizzati.

Anche per questa ragione alcune tesi del volume, benché interessanti, possono talora apparire un po’ drastiche viste dalla “nostra” prospettiva. Il volume si consiglia anche per i riferimenti bibliografici scelti che permettono di approfondire i vari argomenti trattati.

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