“L’ultimo inverno del Novecento” è la prima opera letteraria di Giacomo Scanzi. Una storia apparentemente inattuale, e per questo più vera di tante altre
“Madame era una donna esile. Sotto il trucco leggero con cui tentava di addomesticare i suoi novant’anni, si intravvedevano i lineamenti di un volto dolce, che aveva vissuto intensamente. Nessuno pronunciava il suo nome e forse nemmeno lo conosceva. Tutti la chiamavano semplicemente madame”.
È un libro di un altro secolo L’ultimo inverno del Novecento (Marcianum Press, 2025) e l’autore, il giornalista Giacomo Scanzi, ne è perfettamente consapevole, sin dal titolo appunto. Della prima metà del Novecento, forse dovremmo dire, anche se queste pagine evocano il suo tramonto: ma, come diceva Friedrich Nietzsche, è proprio quando le ombre della sera si allungano che si iniziano a vedere in controluce le radici della pianta a cui noi stessi siamo attaccati. Almeno per chi sa osservare.
Scanzi è uno storico di formazione, allievo alla Statale di Milano di Giorgio Rumi. Oggi è docente universitario, ma dal 2005 ha diretto per dieci anni il Giornale di Brescia, è stato cioè “in trincea” in un mondo che rapidamente trasmutava.
È autore di numerosi saggi, tra i quali Milano intransigente (Ned, 1986), La Rivoluzione francese (Ares, 1989), e soprattutto Paolo VI, fedele a Dio fedele all’uomo (Studium, 2014). In questo suo ultimo libro ha invece deciso di dare libero corso a una vena più letteraria e anche filosofica, che ha fatto parlare il Corriere della Sera di un vero e proprio nuovo autore comparso sulla scena.
La trama può sembrare all’inizio esile, il libro non lo è affatto. A patto di lasciarsi prendere per mano dalle sue pagine e farsi condurre almeno oltre la metà, dove il senso, prima nascosto nella trama di una narrazione ricchissima di dettagli ambientali, poco “parlata”, comincia a rivelarsi.
È un “romanzo di un romanzo”, come indica l’editore, un racconto meta-letterario lungo il quale più si conosce della storia della nostra cultura e più si apprezza l’intreccio, programmatico, con essa. È un libro liminale che intende lasciarci un ricordo nitido e cosciente di un tempo che abbiamo rapidamente sepolto, con le sue delicatezze, i suoi rispetti, le sue ansie esistenziali e persino – la cronaca ce lo mostra – con i suoi equilibri geopolitici. Ed è anche una non convenzionale storia d’amore.
Una storia tutta femminile, osservata da un uomo che sta sempre più di un passo dietro alla linea del racconto, rendendosi quasi invisibile, e attraverso questa “mutazione di genere” vuole rendere un omaggio, postumo, a una femminilità che, almeno a livello di coscienza sociale diffusa, sembra ormai perduta: “Il ‘femminile’ – dice l’autore – è un mistero che mi ha sempre affascinato. E poiché il femminile, per un uomo, costituisce un mistero insondabile che puoi solo contemplare, ho tentato di rendere omaggio a questa dimensione che mi ha sempre accompagnato. È un omaggio alla donna, a colei che sa ingigantire l’umanità”.
Massimo Tedeschi sul Corriere della Sera di Brescia – ha sottolineato al tempo stesso l’inattualità e il fascino del lavoro di Scanzi: un quarto del nuovo secolo è ormai trascorso, il Novecento “è davvero alle nostre spalle e il nuovo secolo è inospitale per storie come questa in cui l’amore ideale spiazza l’erotismo, gli epistolari azzerano la banalità degli emoticon e due personaggi innamorati possono preferire un’unione (quasi) mistica a una felicità ordinaria”.

La protagonista, Magda, triestina, laureata in letteratura francese, è abitata da “un’inquietudine fastidiosa”: a 35 anni, alle 5 di una mattina di fine gennaio lascia improvvisamente la città natale, e il suo mestiere di insegnante, salta sul sedile della sua “piccola utilitaria comprata con i risparmi della Posta” e guida fino in Provenza, anzi in Camargue, ad Aigues Mortes, tuffandosi in paesaggi – che Scanzi ben conosce e ama – che hanno per loro natura qualcosa di onirico: “Se proprio devo annegare – dice Magda –, voglio morire nel mare, non in una pozzanghera”. E alla foce del Rodano incontrerà Alissa, la bianca signora novantenne che cambierà il suo destino, spostando i confini tra letteratura e vita.
Quasi sempre i libri raccontano (anche) di alti libri. Il romanzo di Scanzi rimanda a La porta stretta di André Gide, pubblicato nel 1909. Racconto lungo, precoce e molto controverso, spesso frainteso, è la storia di un triangolo amoroso: Jérôme è amato da due sorelle. Lui ama la maggiore, Alissa, che mai sarà sua, mentre la minore Juliette finirà per sposare Eduard, un maturo commerciante di vini, attratta da una routine rassicurante che darà vita a cinque figli: l’ultima si chiamerà Alissa, proprio come la zia.
Già il giorno dopo l’arrivo, Magda per caso entra nel negozietto in cui Madame/Alissa vende oggetti originali e quadretti creati con fondi di stoviglie. Le due donne si conosceranno poco a poco. Con lo stesso ritmo, pagina dopo pagina il personaggio di Gide esce dalla letteratura e incontra in Magda la figlia che non ha mai avuto. E Magda per contrappasso diventa un personaggio sempre più letterario (“mi sentivo come dentro a un libro, letteratura vivente, e nello stesso tempo ero così viva come non lo ero mai stata”): “Entrambe – dice Scanzi –, incontrandosi, attraversano la loro porta stretta ed escono dal mondo e dalle sue banalità”. Mentre il romanzo di Gide che fa da sottofondo viene a galla sempre più come una storia che potrebbe essere reale – cosa che era negli intenti dello stesso Premio Nobel.
Scanzi legge Gide come un “Dostoevskij occidentale”, un autore capace di affondare lo sguardo negli abissi umani senza censure: “Il Novecento è stato un secolo tragico che ha forgiato l’umano e lo ha temperato. Anche l’amore, categoria in sé astratta, straordinario terreno di redenzione, appartiene alla tragedia in quanto costantemente tenuto d’occhio dalla morte”.
Ma forse più ancora, ciò che questo breve e riuscito romanzo vuole raccontare è la magia di un incontro umano, che è, nelle sue imprevedibili coordinate spaziali e temporali, “un grande mistero” destinato a volte, cosciente o sottaciuto, a fare da architrave a un’esistenza e alla sua offrande: “È lo stesso mistero dell’amore, che genera altre vite e altri incontri. Che fitta rete di misteri siamo noi!”.
La letteratura alla fine di queste pagine si mostra come nient’altro che il plot attraverso il quale raccontarlo. Essa è il terreno in cui queste epifanie, molto personali e private, possono essere registrate. E tramandate. Messaggi in bottiglia affidati al mare in tempesta di un secolo nuovo.
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