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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Stefan Zweig, un cuore “impaziente” che non ha saputo rinunciare al proprio mondo

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LETTURE/ Stefan Zweig, un cuore “impaziente” che non ha saputo rinunciare al proprio mondo

Silvia Stucchi
Pubblicato 4 Giugno 2025 - Aggiornato 6 Giugno 2025 ore 17:56
Stefan Zweig (1881-1942) in una foto attribuita a Lotte Altmann (foto da Wikipedia)

Stefan Zweig (1881-1942) in una foto attribuita a Lotte Altmann (foto da Wikipedia)

"Stefan Zweig. La fine di un mondo" di Raoul Precht ripercorre la vita del grande scrittore che non seppe rinunciare al tramonto della Felix Austria

Raramente, nella nostra vita di lettori, ci imbattiamo in un autore che non tradisce mai: diciamoci la verità, quasi tutti gli scrittori, anche i più blasonati, almeno una volta ci propinano un’opera che non è proprio all’altezza delle precedenti, e che lascia un po’ con l’amaro in bocca.

E invece, Stefan Zweig, lui no, non tradisce mai: restiamo sempre incollati alla sedia sino all’ultima pagina, sia che ci inerpichiamo nelle sue ricostruzioni di un mondo, la Felix Austria, l’ Impero austro-ungarico sgretolatosi nel 1918 dopo la Grande Guerra (Bruciante segreto, Paura, Lettera di una sconosciuta , Ventiquattr’ore nella vita di una donna ), sia che ci incantiamo con le sue biografie, una fra tutte, quella, celeberrima, dedicata a Maria Antonietta, la sfortunata regina di Francia (austriaca d’origine, va ricordata), la cui vicenda esistenziale è raccontata in Maria Antonietta, una vita involontariamente eroica (1932), libro bellissimo, con un valore aggiunto non da poco: a Zweig, infatti, dobbiamo anche, in parte, una icona pop come Lady Oscar , dato che la creatrice del personaggio, R. Ikeda, si sarebbe ispirata in prima istanza proprio a questo libro di Zweig per raccontare la storia della sfortunata sovrana perita sulla ghigliottina.


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E in generale Zweig resta nel cuore dei lettori per la sua capacità di dare voce agli sconfitti della storia, ai soccombenti, come Maria Stuart, o von Kleist, o Magellano .

A Zweig ora Raoul Precht dedica Stefan Zweig. La fine di un mondo (Ares, 2025): Precht allo scrittore austriaco aveva già dedicato Stefan Zweig . L’anno in cui tutto cambiò (BEE Estensioni, 2022), un particolarissimo romanzo biografico che racconta un anno-cerniera nella vita dello scrittore, ma anche un anno fondamentale nella storia europea, con l’avvisaglia di un mondo in profondo, drammatico cambiamento a causa dell’avanzata del nazismo.


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Raccontando la vita di Zweig nel profilo bio-bibliografico pubblicato per Ares, Precht si sofferma non solo sugli snodi cronologici ed esistenziali, ma ci propone anche alcuni affondi nel clima culturale del tempo. Per esempio, in due occasioni, Sigmund Freud si sofferma sul problema della biografia: si tratta di due passi (che Precht riporta alle pp. 97-98) che dovrebbero far riflettere tutti coloro che si accingono a raccontare la vita degli altri.

Freud, il quale puro, in molte occasioni, aveva mostrato di apprezzare il lavoro di Zweig nel campo della biografia, scrive in una lettera, non indirizzata a Stefan, ma al quasi omonimo Arnold Zweig, queste parole: “Chi diventa biografo si impegna alla menzogna, al segreto, all’ipocrisia, a mascherare e perfino a nascondere la propria mancanza di comprensione, perché la verità biografica non è disponibile e, se pure lo fosse, non la si potrebbe analizzare”.


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Certo in queste righe Freud non cita esplicitamente l’amico austriaco e si esprime, come possiamo facilmente comprendere, con un paradosso, ma la chiarezza con cui ci presenta il concetto mostra come, con ogni probabilità, il padre della psicoanalisi nutrisse davvero seri dubbi circa la liceità e l’utilità della ricostruzione biografica.

D’altro canto, Freud intervenne anche, più in generale, a proposito della narrazione storica, in cui Zweig era un maestro, e lo fece in una delle versioni (datata 9 agosto 1934 e poi scartata), dell’introduzione a Mosé e il monoteismo , un’opera che Freud aveva definito come “romanzo storico”.

Del suo Mosé Freud aveva discusso, nei dettagli, fra gli altri proprio con Zweig. E, appunto, a proposito del Mosé, Freud scrive: “Ci si accenge dunque a usare ogni singola possibilità come punto d’appoggio ea colmare le lacune tra un frammento e l’altro secondo la legge, per così dire, di minima resistenza, preferendo le ipotesi cui si può attribuire la verosimiglianza maggiore. Ciò che si ottiene con l’aiuto di questa tecnica si può anche concepire come una sorta di ‘romanzo storico’. Non possiede alcun valore di realtà o solo uno indeterminabile. Infatti, una verosimiglianza, per quanto elevata, non coincide con la verità La verità è spesso molto inverosimile e solo in misura esigua deduzioni e congetture possono sostituire le prove dei fatti”.

Un altro punto molto discusso della vita e delle scelte di Zweig, su cui puro Precht si sofferma ampiamente, è la sua decisione di tenersi lontano per molti anni dall’agone politico in senso lato “reprimendo e celando le proprie posizioni e pulsioni per non essere coinvolto in sterili dispute (…) Entrare in un partito politico o far parte di uno schieramento gli ripugnava, perché avrebbe significato accettare acriticamente una determinata visione del mondo e non essere più aperto a dubbi, perplessità, Zweig era decisamente un uomo del dubbio, non della certezza. Il problema è che, nella situazione storica in cui gli toccò vivere, è stato fin troppo facile accusarlo di passività» (pp. 109-110).

Infine, l’ultimo atto della vita di Zweig, consumato oltreoceano, in Brasile, dove si diede la morte con un doppio suicidio insieme alla seconda moglie, Lotte, ha contribuito ad alimentare l’aura di leggenda intorno al personaggio. Come ricorda Precht, Zweig non è stato certo l’unico, fra i grandi intellettuali tedeschi della sua generazione, a decidere di darsi la morte, anzi: “l’elenco fa rabbrividire, ne conta alcuni fra i migliori esponenti, tutti emigrati eccellenti” (p. 158).

E non si può non restare colpiti, leggendo la biografia dedicata da Zweig a von Kleist, che, oltre un secolo prima, si uccise insieme con Henriette Vogel, pesantemente malata (ma anche come il principe Rodolfo d’Asburgo, primogenito di Francesco Giuseppe ed erede al trono imperiale, insieme con l’amante Maria Vetsera), dalla partecipazione emotiva che trapela dalle pagine dedicate al giovane poeta romantico.

Accanto al letto di morte di Zweig venne trovato un biglietto d’addio, la cosiddetta Declaraçao ( Dichiarazione ), che recitava: “Saluto tutti i miei amici! Che dopo questa lunga notte possono vedere l’alba! Io che sono troppo impaziente, li precedo (…) Penso sia meglio concludere in tempo e in piedi una vita in cui il lavoro intellettuale significava la più pura gioia e la libertà personale, il bene più alto sulla terra”.

Poche righe sopra, Zweig aveva calorosamente elogiato la terra che lo aveva accolto, il Brasile (“questo meraviglioso Paese, che ha donato a me e al mio lavoro una sosta così piacevole e ospitale”), ma aveva anche affermato, impietosamente: “Il mondo della mia lingua è per me tramontato, e la mia patria spirituale, l’Europa, si è autodistrutta”.

Zweig cede così di schianto, per stanchezza, mancanza di fiducia nel futuro e nelle sue forze, ma anche perché si sente del tutto sradicato da un mondo, quello dell’Austria pre-bellica, e da una lingua, il tedesco, che era anche un sistema di pensiero: il suo universo si è distrutto.

Per usare le suggestive parole con cui Precht conclude il suo saggio, e parafrasando un titolo di Zweig stesso, “a impedirgli di rivedere l’alba di un mondo liberato – liberato non da tutti i suoi mali endemici, certo, ma almeno dal nazifascismo – sarà una sua caratteristica irrinunciabile. Sarà, senza dubbio, l’impazienza del cuore”.

 

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