"Il figlio della promessa. Storia di Isacco" di Luca Miele cerca di sbrogliare l'antico mistero del sì abissale di Abramo al sacrificio del figlio
San Pietroburgo: un uomo irsuto di una certa età brandisce minacciosamente nella destra una lama mentre blocca e copre con la sinistra il volto arrovesciato all’indietro, col collo esposto, di un giovane. Per fortuna la lama gli scivola dalla presa. Firenze: un vecchio calvo ma anch’egli barbuto, impugna un coltellaccio e preme con l’altra mano sulla mandibola della vittima, atterrita dalla paura. Venezia: sotto un cielo azzurro e pieno di nuvole, un imberbe giovinetto attende anche lui d’esser sgozzato dalla mano armata e levata al cielo di un robusto anziano. Scene violente che turbano gli occhi e le coscienze. Fortunatamente non si vede sangue, Rembrandt, Caravaggio e Tiziano non lo hanno dipinto. Perché non c’è stato.
Il 22esimo capitolo della Genesi biblica costituisce una colossale pietra d’inciampo davanti alla quale si sono arrestate, turbate, schiere di teologi, filosofi, scrittori e artisti appunto. È il cosiddetto sacrificio di Isacco, il giovane che il Signore chiede in olocausto a suo padre Abramo, dopo averglielo promesso e fatto generare nonostante la tardissima età, sua e di sua moglie Sara.
Richiesta incomprensibile e repulsiva, tanto che Immanuel Kant interpretò l’episodio biblico come l’errata comprensione d’un comando divino da parte di Abramo. È noto che l’olocausto del figlio della promessa di Dio ad Abramo e Sara non si consumò, perché la mano del padre fu fermata in extremis dal Padre e un provvidenziale ariete in loco ne fece le spese.
Resta tuttavia lo sconcerto: come può Dio prescrivere un atto così sacrilego? E come può un uomo obbedire a un ordine così disumano? Davvero un incaglio penoso e scandalizzante, tanto più oggi in cui la “teologia del Sacrificio” non gode certo di buon corso.
E non si creda che, trattandosi dei Patriarchi d’Israele (venerati anche nella Chiesa cattolica) l’affare riguardi solo l’ebraismo; anche l’islam di questa vicenda ha fatto memoria, sia nel Corano (Sura 37) che in alcune immagini, magari spesso sostituendo Isacco con Ismaele, il figlio di Abramo e della serva Agar, morto, secondo la tradizione, alla Mecca e considerato progenitore dei popoli arabi, secondo la promessa divina mai revocata (a questa antica storia fa riferimento la dicitura “Accordi di Abramo” nei nostri giorni, giacché Dio promise a entrambi i popoli una immensa discendenza; va aggiunto però che la relazione tra Isacco e Ismaele, o meglio tra le due stirpi, presentò sin da subito alcuni problemi, come ben si legge nella Bibbia).

Pure la teologia cristiana ha visto nella figura di Isacco, innocente condannato a morte, un’anticipazione del Cristo, il quale però, per la malvagità umana, il sangue lo versò davvero. La storia dell’arte visiva dei tre monoteismi ha affrontato (benché ebraismo e islam siano credi aniconici, a differenza del cristianesimo) con dovizia di esempi questo aguzzo scoglio fondativo: si vedano ad esempio i dipinti sul tema di Marc Chagall e la vivida miniatura persiana di Qazvin.
Attorno a questo stesso enigmatico scoglio bordeggia anche Luca Miele nel suo Il figlio della promessa. Storia di Isacco (Claudiana, 2024), un singolare testo che cerca di disaggrovigliare quel mistero scomponendolo personaggio per personaggio e scavando di ciascuno i sentimenti e le pulsioni. Dall’altera e sterile Sara, beneficata di maternità a 90 anni, che suggerisce al marito Abramo, prima dell’intervento di Dio, di giacere con la serva Agar pur di avere un erede; a Ismaele, in effetti il primogenito di Abramo, amatissimo dal padre che poi però lo scaccerà su richiesta di Sara ormai madre di Isacco.
Sono nove in tutto le figure bibliche (più “la Voce” divina) attraverso cui si dipana l’intricata vicenda, umanissima e sovrumana, fatta di gelosie, di rivalse, di visioni e di dubbi, di ribellione e docilità, di silenzi e interrogativi, che accumula via via che ci si approssima al monte Moriah sempre maggior tensione, sino al climax che suona come un gigantesco “Perché?” rivolto al Cielo.
In tanti hanno provato a sciogliere questo nodo ostico e ingarbugliato, forse Kierkegaard in Timore e tremore è quello che ha tentato con maggior vigore d’illuminare questa oscurità biblica, postulando la superiorità della fede sull’etica.
Resta la sceneggiatura d’un mistero profondo, che inquieta, atterrisce e perfino indigna, quella che sfila sulla superficie delle pagine di Miele come pure sul palcoscenico del mondo odierno, dove scorre altrettanta implacabile tensione impastata di incomprensibilità come migliaia d’anni fa. E dove s’invoca e s’attende che la pietà di Dio o d’un Suo angelo, scenda infine, come sul monte Moriah, a disarmare la mano armata in Suo nome.
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