L'opera teatrale "Irradiazione della paternità", composta da Karol Wojtyła prima del 1964, introduce nella contemplazione del Mistero del "Teo-dramma"
Il ventesimo anniversario della morte di san Giovanni Paolo II e il centocinquesimo della sua nascita, ambedue occorsi nel mese di maggio, ci aiutano a fare memoria dello straordinario dramma teatrale Irradiazione della paternità, composto da Karol Wojtyła prima del 1964 e pubblicato solo dopo la sua elezione al papato nel numero del novembre 1979 del mensile cracoviense Znak (vedi K. Wojtyła, Tutte le opere letterarie, Bompiani, Milano 2001, pp. 875-953). Questo dramma teatrale ci introduce nella contemplazione del Mistero del Teo-dramma, come indica il sottotitolo Mysterium e i versetti di san Giovanni messi in esergo: “Tre sono quelli che danno testimonianza in Cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo, e questi tre sono uno. E tre sono quelli che danno testimonianza in terra: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono uno” (1Gv 5, 7-8).
Il dramma prende avvio dal monologo di Adamo, l’uomo vecchio, e dall’analisi della sua solitudine. Egli è l’uomo che resta sempre solo, sebbene possa “essere portato fuori parentesi per poi essere messo a denominatore comune della storia di tutti gli uomini”. Così “egli si pose un tempo al limite tra paternità e solitudine”. Isolandosi da tutti gli uomini, medita Wojtyła, tutti li isolò. In tutti inoculò la resistenza nei confronti della Paternità di Dio, in tutti gli uomini la resistenza a divenire padri, in tutti la resistenza ad accogliere il dono della dignità filiale.
Adamo non se la sentiva di dire “mio”, nota Wojtyła con profonda cognizione dell’animo umano: “Da tutte le parole che uso ho deciso di espellere la parola ‘mio’. Come posso servirmi di questa parola, dal momento che so che tutto è Tuo?”. Sembra una modestia, ma è falsa modestia. Adamo voleva rimanere nella sua solitudine, per questo si sbarazza della parola “mio”, perché intuisce che essa lo farebbe tornare al Padre: “L’analisi della parola ‘mio’ mi porta sempre a Te. Ecco, preferisco addirittura rinunciare a servirmene piuttosto che scoprirne il senso ultimo in Te. Infatti voglio avere tutto per merito mio e non per merito Tuo. È un nonsenso, eppure quanti uomini si sono impegnati al servizio di questo nonsenso”. Ripudiando la paternità del Padre, Adamo vuol essere padre di se stesso, vuole ottenere per proprio merito ciò che continuamente gli è donato. Per contro, l’Apostolo domanda: “Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?” (1Cor 4,7).
Pur continuando ostinatamente a sottrarsi al Padre, Adamo non può fare a meno di riconoscere che “tra il limite superiore del compimento dell’umanità dell’uomo e quello inferiore della distruzione dell’umanità nell’uomo rimarrà sempre solo questo: l’associazione con l’idea del Padre… l’associazione con l’idea del Padre”.
La soglia della solitudine in Adamo è stata varcata dalla Donna, che è Madre: “In lei è incominciata una Nuova Vita”. Lo sguardo rivolto verso la Madre e il suo Bambino orienta il monologo di Adamo verso il Padre: “Dopo parecchio tempo sono riuscito a capire che Tu non vuoi che io sia padre senza essere figlio. È proprio per questo che Tuo Figlio è venuto nel mondo. Egli è totalmente Tuo. La parola ‘mio’ trova in Lui una motivazione assoluta, può essere pronunciata con assoluta sicurezza. Senza questa motivazione e questa sicurezza quella parola è un rischio, e rischio è anche l’amore. Perché mi hai imposto un amore che in me deve essere rischio? Ecco, Tuo Figlio prende su di Sé tutto il rischio dell’amore. […] Quando Tuo Figlio venne, io continuavo a essere il comun denominatore dell’interiore solitudine dell’uomo. Tuo Figlio ha voluto entrare in essa. Lo ha voluto perché ama. La solitudine s’oppone all’amore. Al limite della solitudine l’amore deve diventare patimento. Tuo Figlio patì. Ed ecco, ci siamo noi due nella storia di ciascun uomo: io, dal quale inizia e nasce la solitudine, e Lui, nel quale la solitudine scompare e di nuovo nascono figli”.
Al termine della Prima Parte, la Madre, rivolgendosi ad Adamo, gli indica la via del ritorno al Padre: “Non avere paura. Deve far male. È un dolore simile ai dolori del parto. La donna sa della generazione immensamente di più di quanto ne sappia l’uomo. E lo sa soprattutto per via della sofferenza legata alla generazione. L’una e l’altra sono il suo mistero. La maternità tuttavia rappresenta un’espressione della paternità. Deve sempre tornare al padre per prendere da lui tutto ciò di cui è espressione. Consiste in questo l’irradiazione della paternità”. “Si ritorna al padre attraverso il figlio”, prosegue la Madre. “E il figlio a sua volta restituisce a noi nel padre lo sposo. Questo è molto semplice e normale. Tutto il mondo ne è pieno. Occorre entrare nell’irradiazione della paternità, in essa soltanto tutto diventa realtà piena. […] Infatti rifletti! Riflettete tutti: quanto occorre scegliere per generare! Non ci avevate pensato. Per generare occorre molto più scegliere che non per creare. In questo consiste l’irradiazione della paternità. […] Ritorniamo al padre attraverso il figlio. Il figlio poi a sua volta ci restituisce nel padre lo sposo. Non dividete l’amore. Esso è uno”. Non sono metafore né infingimenti, avverte Wojtyła, è tutto vero.
La parola “mio”, controintuitivamente, non è parola di narcisistica volontà d’autoaffermazione, ma è indice di comunione reale delle persone, segno di sempre nuova generazione di vita, perché la comunione stessa è vita. “L’amore è sempre una scelta e sempre da una scelta nasce. (Ecco il mistero della parola ‘mio’). Se amo, devo continuamente scegliere te in me, devo dunque continuare a generarti e continuare a nascere in te. Generando in questo modo attraverso una continua scelta generiamo l’amore. (Ecco il mistero della semplice parola ‘mio’)”.
Solo Gesù può dire pienamente “mio” al Padre: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Mt 11,27). E, nel grazioso ritrovamento del dono della dignità filiale, anche il figliol prodigo torna a dire “mio”: “Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò…” (Lc 15,18).
L’irradiazione della paternità è sorgente inesauribile di nuova nascita e di eterna giovinezza, ciò che Chesterton chiama “immortal infancy”, “eternal appetite of infancy”. Essa è propria di Dio solo, “perché noi abbiamo peccato e siamo invecchiati, e il Padre nostro è più giovane di noi” (G. K. Chesterton, Orthodoxy [1908], The Bodley Head, London 1927, p. 107). Lo spirito d’infanzia evangelico si caratterizza per la capacità di ripresa, per la gioia di inizi sempre nuovi, liberata dai circuiti chiusi dell’eterno ritorno dell’identico, che è causa di noia e di nausea, propria di chi non spera più l’accadere della Novità nella sua vita e nella Storia. Lo spirito d’infanzia è preludio, ingresso incoativo (già e non ancora) del temporale nell’Eterno, che non sarà catatonica immobilità o senso di sazietà fino alla noia e alla nausea eterna. Sarà invece esuberante avventura di persone vive (divine, angeliche, umane), “di inizio in inizio, con inizi che non avranno mai fine” (Gregorio di Nissa). Di tutto questo, lo spirito d’infanzia di colui che, come figlio obbediente, rimane “in Cristo” nell’irradiazione della paternità è reale caparra, pre-sentimento della Vittoria, perché “vivere è vincere” (santa Teresa de Jesús). Anche se in terra i conti non tornano, in Cielo però i torni contano (eccome se contano). Mirabile rovesciamento: “Beati voi che ora piangete, perché riderete”, disse il rabbino di Nazaret (Lc 6,21b). Disse anche: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11).
Al termine del dramma, Adamo, in un ultimo, pervicace tentativo di proiettare la propria solitudine in Dio, tenta il Padre insinuando una possibilità disperante: “Sì, può succedere che Tu respinga il nostro mondo. Gli permetti di dissolversi del tutto attorno a noi, e soprattutto in noi stessi. E allora sarà manifesto che Tu tutto rimani soltanto nel Figlio, e Lui in Te; e tutto insieme con Lui nel Vostro Amore. Padre e Sposo. E tutte le altre realtà appariranno allora irrilevanti e inessenziali, eccetto questa unica: eccetto il padre, il figlio e l’amore”. Ma Dio non è una proiezione dell’uomo. Per questo, l’ultima parola del dramma non spetta all’uomo vecchio, ma alla MADRE, la cui voce interrompe improvvisa il silenzio: “Ti sbagli Adamo! Vi sbagliate tutti! In me permane l’eredità di tutti gli uomini innestati nella morte dello Sposo”.
Il Mistero dell’irradiazione della paternità, ultimamente, è il Figlio, “irradiazione della gloria e impronta della sostanza” del Padre (Eb 1,3). “Solo grazie a Cristo è stata aperta una via al di fuori dell’eterno ritorno del Medesimo” (M.-J. Le Guillou). È la via del ritorno del figliol prodigo alla casa di suo padre. La nostra distanza dal Padre è tremenda perché, a causa del nostro peccato, calpestiamo una terra immersa nell’“ombra di morte” (Is 9,1). Ogni giorno ogni uomo in diversi modi si ribella al Padre e cerca di sottrarsi al Suo sguardo, ma qualunque sua lontananza non sarà mai abbastanza lontana da impedire al Padre di raggiungerlo e di abbracciarlo con il Suo sguardo d’amore. “Tu infatti porti avanti il Tuo piano”, ammette Adamo. “Sei risoluto, e i Tuoi piani sono irreversibili”. Per questa eterna solidità, consistenza, fedeltà di Dio, il figliol prodigo tornò da suo padre. “Fammi ritornare e io ritornerò, perché Tu sei il Signore mio Dio” (Ger 31,18). Tutto, ci ricorda Wojtyła, continua e continuerà sempre ad accadere nell’irradiazione della paternità. È tutto molto semplice e drammatico, come nel Padre nostro di Stravinsky e in Padre di Chieffo.
Un padre aveva due figli. Al più giovane, un giorno, donò un libro di preghiere in cui ce n’era una allo Spirito Santo. Il padre esortò suo figlio a pregarla ogni giorno e, da quel giorno, il figlio cercò di fare come suo padre gli aveva detto. Il figlio più giovane si chiamava come suo padre – Karol (cfr. Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994, p. 168). La preghiera è questa:
“O Santo Spirito,
Tu Amore del Padre e del Figlio.
Consigliami sempre ciò che devo pensare.
Consigliami sempre ciò che devo dire e come devo dirlo.
Consigliami ciò che devo tacere
e come devo comportarmi.
Consigliami ciò che devo fare a gloria di Dio,
per il bene delle anime
e per la mia propria santificazione.
Santo Spirito,
dammi intelletto per comprendere e per conoscere;
dammi capacità di serbare e custodire ogni cosa.
Insegnami i metodi e dammi la capacità
di imparare sempre di nuovo.
Dammi acume, per interpretare e distinguere correttamente.
Dammi la Grazia per parlare in modo efficace.
Santo Spirito,
dammi fiducia e sicura precisione all’inizio,
guidami e conducimi durante l’esecuzione,
e donami compimento alla fine.
Amen”.
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