Entro la fine del 2027 terminerà la missione Unifil in Libano. Lo ha deciso l'Onu. Era nata per disarmare Hezbollah e rendere sicuro il sud
In Libano, da quasi cinquant’anni, l’ONU ha schierato un esercito di inermi. Lo hanno chiamato UNIFIL, un acronimo da burocrati per un esercito di cartapesta.
La storia di questa missione è il racconto amaro di una forza che è stata usata come foglia di fico per coprire una realtà cruda e implacabile. È la storia di un fallimento annunciato e, alla fine, accettato, un destino segnato fin dalle sue origini, sancite dalle Risoluzioni 425 e 426 del 1978.
Tutto cominciò in un’epoca di ingenuità e di buona volontà. Dopo l’ennesima invasione israeliana, l’Operazione Litani, le Nazioni Unite decisero di mandare i nostri Caschi Blu, e altri ancora, con un mandato tanto semplice quanto utopico: far ritirare Israele e ridare al governo libanese un po’ di autorità sul suo stesso territorio.
Erano parole scritte su un pezzo di carta. La realtà, nel frattempo, viaggiava su un altro binario: il governo di Beirut era una scatola vuota, le milizie e i signori della guerra, dai palestinesi dell’OLP ai falangisti cristiani, non avevano alcuna intenzione di cedere il loro potere. UNIFIL, fin da subito, si trovò a fare da spettatore in un teatro di guerra che non poteva controllare.
Poi, nel 2006, dopo un’altra guerra, l’ennesima, si decise di cambiare registro. La Risoluzione 1701 fu la nuova Bibbia. Si diede a UNIFIL un mandato “robusto”, come dissero i soliti diplomatici. I militari dovevano fare i poliziotti in un Libano in ginocchio, aiutare l’esercito locale, e, soprattutto, dovevano disarmare la milizia che era diventata il vero padrone del sud: Hezbollah.
Una follia. Chiunque avesse un po’ di buon senso sapeva che l’ONU non avrebbe mai disarmato un gruppo così radicato e potente, con le sue ramificazioni politiche e la sua rete di potere. Era come chiedere a una squadra di vigili urbani di fermare un’invasione di carri armati, ma senza avere il diritto di usare un’arma.

In questi anni, i risultati sono stati un misto di fumo e di specchi. Certo, i soldati hanno evitato che la guerra esplodesse di nuovo in grande stile. Hanno fatto un lavoro di fino, un mestiere da sarti, disinnescando le crisi e tenendo a bada i nervi tesi di Tel Aviv e Beirut.
La loro presenza, come un’insensata ma necessaria barriera umana, ha evitato il peggio. E si sono dati da fare, nel sociale: una clinica qui, una scuola lì, un po’ di aiuti umanitari alla popolazione stremata. Piccoli successi, dignitosi, che hanno mascherato il grande, clamoroso, irrisolto fallimento.
L’elefante nella stanza si chiama Hezbollah. Eravamo andati lì per aiutare l’esercito libanese – pressoché dissolto – a disarmare i miliziani del partito sciita. Invece sono rimasti, si sono rafforzati, hanno costruito cunicoli, hanno accumulato armi e si sono comportati come il vero Stato del Libano meridionale. E UNIFIL, con il suo mandato di carta e le sue regole d’ingaggio da buoni samaritani, non ha mai potuto, né saputo, far nulla per impedirlo.
La missione è stata il garante di una pace fasulla, una forza che ha chiuso un occhio quando avrebbe dovuto usare la forza. Ma le “regole di ingaggio”, il mandato ONU, lo impedivano. Le sue limitazioni operative, imposte dalla politica, l’hanno trasformata in un guscio vuoto, incapace di svolgere le funzioni per le quali era stata pensata.
La decisione di porre fine alla missione, che terminerà alla fine del 2027, è il riconoscimento finale di questa impotenza. Non è la fine di una guerra, ma la fine di un’illusione che è stata puntualmente rinnovata, anno dopo anno, con decine di risoluzioni, tra cui le più recenti 2695 (2023) e 2749 (2024).
La domanda rimane: a che cosa è servito tutto questo? A dimostrare, ancora una volta, che la verità è spesso più semplice, e più brutale, delle narrazioni che ci costruiamo per farla sembrare diversa.
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