Dopo diversi interventi della Corte Costituzionale, la disciplina dei licenziamenti è diventata ormai un puzzle

La disciplina dei licenziamenti ha subito, negli ultimi anni, numerose e profonde modifiche. «In effetti – ci spiega il giuslavorista Cesare Pozzoli -, dopo la riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori da parte della Legge Fornero (L. 92/2012) e del Jobs Act (L. 23/2105), la disciplina dei licenziamenti, anche per effetto di numerose sentenze della Corte Costituzionale, è ormai diventata un puzzle,



con regimi di tutele differenziate (qualcuno ne ha contate addirittura oltre 20) a seconda dell’impresa (se con più o meno di quindici dipendenti), della data di assunzione del lavoratore (se prima o dopo il 7 marzo 2015), del tipo di licenziamento (per motivi disciplinari ovvero per motivi oggettivi o discriminatori o altro ancora) e, infine, a seconda che si tratti di licenziamento individuale o collettivo».



Possiamo fare il punto sulla materia?

A partire dalla storica sentenza della Corte Costituzionale n. 194 del 2018, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del Jobs Act innalzando le tutele ivi previste da 2/36 a 6/36 mensilità, la Consulta è tornata più volte sull’impianto normativo del Jobs Act demolendo la normativa sui licenziamenti con interventi in alcuni casi piuttosto “invasivi”.

Quali in particolare?

Con la sentenza n. 150 del 2020, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 4 del Jobs Act nella parte in cui, per la determinazione dell’indennità minima da corrispondere al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo per vizi formali, faceva esclusivo riferimento all’anzianità di servizio, che peraltro era un criterio certo utilizzato da anni anche da altri ordinamenti giuridici europei.



Con la sentenza n. 59 del 2021, la Consulta si è pronunciata sull’articolo 18 ritenendo irragionevole il potere discrezionale di scelta sulla reintegrazione in capo al giudice ove si fosse accertata l’insussistenza manifesta del fatto causante il recesso. La Corte ha censurato la norma nella parte in cui prevedeva che il giudice “può altresì applicare“, invece che “applica altresì” la c.d. “tutela reintegratoria“: qui la Corte, differentemente da quanto opinato in altre sentenze, ha “ridotto” i poteri discrezionali del giudice. Poco dopo, con la sentenza n. 125 la Consulta è ritornata sul medesimo punto.

E cosa ha stabilito?

Ha dichiarato irragionevole il requisito della “manifesta insussistenza” del fatto nel licenziamento per ragioni economiche ritenendo che tale requisito fosse vago e pertanto foriero di incertezze applicative, con conseguenti possibili disparità di trattamento. Con la successiva sentenza n. 22 del 2024 la Consulta ha eliminato l’avverbio “espressamente” dal testo dell’art. 2 del Jobs Act che limitava le ipotesi di nullità dei licenziamenti, con conseguente reintegra nel posto di lavoro, ai soli recessi ove il requisito fosse indicato “espressamente” dalla legge come nel caso, ad esempio, del licenziamento della lavoratrice durante il “periodo protetto” di gravidanza.

Non è stata l’unica sentenza in materia di licenziamenti della Consulta dello scorso anno…

No. Con la sentenza n. 128 del 2024 la Corte è tornata sul tema della disciplina dei licenziamenti economici. Con tale pronuncia la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria si applichi anche nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo qualora sia dimostrata l’insussistenza del fatto materiale addotto dall’impresa. Di particolare interesse è la conferma della sola indennità risarcitoria in caso di violazione della possibilità di ricollocamento del lavoratore (repêchage). È da notare che la Corte di Cassazione con ordinanza n. 9937/2024 aveva sostenuto il contrario.

Il giorno dopo la Consulta con la pronuncia n. 129 ha statuito che in caso di licenziamento disciplinare, qualora i fatti contestati siano punibili con sanzioni conservative secondo il Ccnl, la sanzione debba essere quella della reintegrazione nel posto di lavoro. Infine, con la recente sentenza n. 118 del 2025, la Corte ha rivoluzionato le tutele sui licenziamenti nelle piccole imprese.

In che senso?

Fino a oggi, per le imprese con meno di 16 dipendenti (che sono circa l’80% delle aziende italiane e che occupano più del 50% dei lavoratori in Italia), la tutela massima in caso di licenziamento illegittimo (salvi i casi di licenziamento nullo o discriminatorio) era di 6 mensilità sia per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 (assoggettati al regime del Jobs Act) che per quelli assunti prima di tale data e ciò per effetto di una Legge risalente al 1966 (L. n. 104/1966) più volte scrutinata e ritenuta legittima in parte qua dalla Consulta.

E poi?

Dallo scorso luglio, invece, per effetto della dirompente sentenza n. 118, la Consulta ha stabilito che per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 dalle aziende con meno di 16 dipendenti (cioè per quasi la metà dei lavoratori attualmente occupati) l’indennizzo in caso di licenziamento può arrivare fino a 18 mensilità ed è, quindi, triplicato rispetto al limite massimo di 6 mesi previsto fino ad allora dalla legge per tutte le aziende di dimensioni medio-piccole.

Con quale motivazione?

Secondo la Corte, “la tutela risarcitoria deve … consentire al giudice di modularla alla luce di una molteplicità di fattori (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’impresa, anzianità di servizio … comportamento e condizioni delle parti) al fine di soddisfare l’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore […] imposta dal principio di eguaglianza“.

La Consulta ha anche ritenuto che “il criterio del numero dei dipendenti non può costituire l’esclusivo indice rivelatore della forza economica del datore di lavoro e quindi della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi, dovendosi considerare anche altri fattori altrettanto significativi, quali possono essere il fatturato o il totale di bilancio”. La sentenza è dirompente e le piccole imprese si stanno accorgendo solo adesso della sua enorme portata.

Perché l’effetto è così dirompente?

Con questa norma il panettiere o il carrozziere che licenziano il proprio collaboratore rischiano di pagare fino a 18 anziché 6 mensilità di indennizzo con il rischio concreto, in molti casi, di mettere a rischio la continuità delle piccole imprese, spesso sprovviste di rilevanti risorse finanziarie, come risulta dai dati statistici in materia. Non solo. Per la mia esperienza professionale nelle piccole imprese le cause di impugnazione del licenziamento erano finora piuttosto limitate proprio perché a fronte di un rischio massimo di 6 mensilità era frequente che il lavoratore e il datore di lavoro si mettessero d’accordo pattuendo 2 o 3 mensilità di “buonauscita“.

E adesso?

Da oggi, invece, anche un piccolo imprenditore dovrà rivolgersi ad avvocati o consulenti per predisporre un licenziamento “adeguato” alle complesse normative vigenti ed è prevedibile che, a fronte di un range di indennità fino a 18 mensilità, aumenti il numero di contenziosi nelle piccole aziende come accade nei casi di licenziamenti dei dipendenti di aziende di medio-grandi dimensioni. Ma i problemi non finiscono qui.

Ovvero?

Con la sentenza n. 118/2025 la Consulta ha abrogato il tetto massimo di 6 mensilità ritenendo che compete al giudice un più ampio spazio discrezionale che non sarebbe soddisfatto commisurando il risarcimento secondo la disciplinata delineata dal Jobs Act (da 3 a 6 mensilità) rispetto al range di 6/36 mensilità previsto per le grandi aziende; tuttavia, questo enorme spazio discrezionale attribuito ai giudici, se da un lato è parzialmente giustificabile in considerazione della particolarità di ciascun caso concreto, dall’altro lato cozza con la variegata difformità delle decisioni giudiziarie sulla materia.

Può fare qualche esempio?

È di un mese fa la sentenza della Corte di Cassazione che ha dichiarato illegittimo il licenziamento di un dipendente che prima dell’inizio del proprio turno aveva sputato, nel posteggio aziendale, sull’auto di un collega colpendo con un calcio lo specchietto retrovisore, che poi aveva staccato con le mani e asportato. La decisione si è basata sulla considerazione che la condotta del dipendente sarebbe stata posta in essere “al di fuori dei locali” aziendali (Cass. 22593/2025). Si segnalano all’opposto pronunce che hanno ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che ha “solo” insultato il proprio superiore (Cass. 21103/2025).

Ancora, in alcuni casi la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento intimato a un lavoratore coinvolto in un procedimento penale per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti (Cass. 16612/2025) mentre in altri casi la stessa Corte di Cassazione ha affermato esattamente il contrario (Cass. 12306/2024). E si potrebbe continuare.

Come si può vedere, la difformità delle sentenze in subiecta materia rende palese che il range di valutazione giustamente attribuito al giudice debba essere comunque contenuto onde evitare decisioni molto difformi e tali da pregiudicare non solo la certezza del diritto, ma anche una ragionevole aspettativa da parte delle imprese minando con essa la competitività del nostro Paese. Ma l’effetto dirompente della sentenza della Consulta n. 118/2025 non è solo questo.

Può declinare meglio?

La Corte ha ribadito, come peraltro fatto in precedenza, che la differente disciplina delle tutele per i licenziamenti non può essere determinata soltanto dal numero di addetti all’impresa (come accade da sessant’anni secondo un assetto ritenuto più volte legittimo anche da parte della stessa Corte), ma deve avere riguardo anche ad altri fattori quali le dimensioni dell’impresa, l’anzianità di servizio del lavoratore, il comportamento e le condizioni delle parti, i dati di bilancio aziendale: il che creerà ulteriori problemi applicativi.

Perché?

Commisurare le tutele di un lavoratore anche a questi differenti fattori piuttosto che a un elemento sostanzialmente certo come il numero di dipendenti porterà a ulteriori controversie interpretative, inevitabili contenziosi e a sentenze multiformi e “creative”. Forse anche per questo la Consulta, dopo aver “riscritto” la disciplina sui licenziamenti, ha anche chiesto al legislatore, come sta facendo anche in altre materie e andando forse oltre le proprie prerogative istituzionali, una “revisione complessiva della materia”, realizzando di fatto ciò che la recente consultazione referendaria dell’8 e 9 giugno non era riuscita a fare proprio per la mancata partecipazione dei lavoratori-elettori che ha determinato la notevole insufficienza del quorum.

Quale “revisione” si potrebbe ipotizzare?

Non spetta a me dare suggerimenti, ma se si optasse per un Testo Unico semplice e comprensibile che riunifichi la materia e le attuali venti e più forme di tutela in modo chiaro e intellegibile, lasciando una certa discrezionalità al giudice ma all’interno di range comunque chiari e limitati, sarebbe già un buon passo in avanti. Il problema del lavoro non può peraltro essere ridotto alla sola materia dei licenziamenti che è spesso brandito da varie parti come una mera bandiera ideologica.

Cosa intende dire?

A ragione o a torto, l’attuale assetto dei licenziamenti smantellato dalla Consulta aveva di fatto contribuito – insieme ad altri fattori – a realizzare quest’anno il picco massimo storico di assunzioni anche a tempo indeterminato dai primi anni Duemila. Di fronte a questo dato, forse “smontare” il Jobs Act con le molteplici sentenze sopra ricordate non è stato un grande contributo all’occupazione.

Su questo varrebbe la pena riflettere perché le stesse barriere che si alzano “in uscita” diventano anche ostacoli per le imprese alle nuove assunzioni “in entrata”. I temi cruciali del lavoro sono comunque anche altri, come ha ricordato il Manifesto del Buon Lavoro della Compagnia delle Opere rilanciato anche nell’ultima edizione del Meeting di Rimini.

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