La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il tetto di sei mensilità previsto dall'art 9 del Jobs Act

Il tetto delle sei mensilità per l’indennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese è incostituzionale. È quanto ha stabilito la Corte Costituzionale nella sentenza numero 118, depositata ieri, con riferimento all’art. 9, comma 1, del decreto legislativo n. 23 del 2015.

Con specifico riferimento al caso in cui il datore di lavoro non occupi più di quindici lavoratori presso un’unità produttiva o nell’ambito di un comune (e comunque, non occupi più di sessanta dipendenti), l’art. 9, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 stabiliva che «è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità» l’ammontare delle indennità e dell’importo previsti nei casi di:

a) licenziamento senza giustificato motivo o giusta causa (per il quale l’art. 3, comma 1, prevede un importo di «misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità»);

b) licenziamento inficiato da vizi formali o procedurali (in conseguenza del quale l’art. 4, comma 1, consente di conseguire un importo di «misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità»);

c) licenziamento al quale segua l’offerta di conciliazione e l’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore illegittimamente licenziato (ipotesi per la quale l’art. 6, comma 1, contempla un «ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a tre e non superiore a ventisette mensilità»).

Già nella sentenza n. 183 del 2022 la Corte Costituzionale si era pronunciata sulla legittimità dell’art. 9, comma 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, ravvisandovi la sussistenza di un vulnus ai principi costituzionali in ragione dell’«esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità», che «vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza».

La Corte Costituzionale aveva anche osservato che «il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge» trova la sua principale (se non esclusiva) giustificazione nel numero ridotto dei dipendenti che non rispecchia più, isolatamente considerato, l’effettiva forza economica del datore di lavoro, specie «in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi», in cui «al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari».

E ancora, la Corte Costituzionale aveva sottolineato che «[i]l limite uniforme e invalicabile di sei mensilità, che si applica a datori di lavoro imprenditori e non, opera in riferimento ad attività tra loro eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati, sprovvisto di per sé di una significativa valenza».

La Corte Costituzionale aveva quindi concluso che un simile sistema «non attua quell’equilibrato componimento tra contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi».

A tale vulnus, tuttavia, la Corte Costituzionale aveva ritenuto nel 2022 di non poter porre rimedio, per come era stata prospettata la questione da parte del giudice rimettente. La Corte Costituzionale si era quindi “limitata” a segnalare la necessità che la materia, «frutto di interventi normativi stratificati», fosse «rivista in termini complessivi» dal legislatore. La Corte Costituzionale aveva comunque avvertito che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe stato tollerabile e, ove la questione fosse stata nuovamente sollevata, la Corte sarebbe stata indotta a «provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte».

Il tempo trascorso e la formulazione della questione da parte del Tribunale di Livorno – che non ha chiesto un intervento altamente manipolativo, volto a ridisegnare la tutela speciale per i datori di lavoro sotto soglia in assenza di punti di riferimento univoci, ma ha chiesto solo di eliminare la significativa delimitazione dell’indennità risarcitoria – hanno quindi indotto la Corte Costituzionale a dichiarare questa volta l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo n. 23 del 2015.

È subito da segnalare che il vulnus ai principi costituzionali non è stato ravvisato dalla Corte Costituzionale nella previsione del dimezzamento degli importi delle indennità previste dagli artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, del medesimo d.lgs. n. 23 del 2015, modulabili all’interno di una forbice, diversamente individuata in relazione a ciascun tipo di vizio, ma sempre sufficientemente ampia e flessibile, perché compresa fra un minimo e un massimo, e comunque tale da non impedire al giudice di tener conto della specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza.

Secondo la Corte, quello che confligge con i principi costituzionali, dando luogo a una tutela monetaria incompatibile con la necessaria «personalizzazione del danno subito dal lavoratore» (sentenza n. 194 del 2018), è piuttosto l’imposizione di un tetto, stabilito in sei mensilità di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e insuperabile anche in presenza di licenziamenti viziati dalle più gravi forme di illegittimità, che comprime eccessivamente l’ammontare dell’indennità.



Tale significativo contenimento delle conseguenze indennitarie a carico del datore di lavoro – che si impone sul limite massimo specificamente previsto in relazione a ciascun tipo di vizio e già oggetto di dimezzamento con riguardo ai datori di lavoro con un numero limitato di dipendenti, per effetto del medesimo art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 – delinea un’indennità stretta in un divario così esiguo da connotarla al pari di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata.



Ma una siffatta liquidazione è stata ritenuta dalla Corte Costituzionale inidonea a rispecchiare la specificità del caso concreto e quindi a costituire un ristoro del pregiudizio sofferto dal lavoratore, adeguato a garantirne la dignità, nel rispetto del principio di eguaglianza. Secondo la Corte, tale ristoro può essere delimitato, ma non sacrificato neppure in nome dell’esigenza di prevedibilità e di contenimento dei costi, al cospetto di un licenziamento illegittimo che l’ordinamento, anche nel peculiare contesto delle piccole realtà organizzative, qualifica comunque come illecito.



La Corte ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alle parole «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità».

Nel contempo, la Corte Costituzionale ha ribadito l’auspicio che il legislatore intervenga sulla materia nel rispetto del principio secondo cui il criterio del numero dei dipendenti non può costituire l’esclusivo indice rivelatore della forza economica del datore di lavoro e quindi della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi, dovendosi considerare anche altri fattori altrettanto significativi, quali possono essere il fatturato o il totale di bilancio, da tempo indicati come necessari elementi integrativi dalla legislazione europea e anche nazionale.

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