A Firenze un dipendente è stato liceziato a causa di insulti rivolti ai capi in alcuni messaggi su Whatsapp, ma la Cassazione lo reintegra per la segretezza
Prima licenziato per colpa di messaggi incriminati su Whatsapp, in cui offendeva i datore, poi reintegrato grazie alla Cassazione. Questo è l’episodio caso singolare che ha visto protagonista un uomo di 40 anni, dipendente di un’azienda di Firenze, che ha deciso ingenuamente di sfogarsi in una chat privata su WhatsApp, convinto, probabilmente, di trovarsi in un contesto riservato e confidenziale. Insieme ad altri tredici colleghi, l’uomo all’interno di una chat di gruppo, chiamata “Amici Lavoro”, in un momento di frustrazione e presumibilmente in preda allo stress, ha espresso giudizi severi e poco lusinghieri sui propri superiori, senza troppi convenevoli.
Ciò che non poteva immaginare era che la fiducia nei membri del gruppo fosse decisamente mal riposta: uno dei partecipanti ha infatti segnalato i messaggi all’azienda, inviandoli direttamente alla direzione, un gesto che ben presto avrebbe avuto conseguenze drastiche, tanto che l’operaio, considerato colpevole di aver offeso l’azienda con termini denigratori e diffamanti, si è visto recapitare, nel settembre del 2018, una lettera di licenziamento immediato, in quanto la società ha ritenuto che le espressioni utilizzate nel messaggio vocale rappresentassero un’offesa grave, dal tono minaccioso e ingiurioso, incompatibile con il loro rapporto di lavoro.
Il 40enne, in disaccordo con questa presa di posizione, non si è arreso decidendo di impugnare il provvedimento e dopo un lungo iter giudiziario, la vicenda ha trovato la sua conclusione con la pronuncia della Cassazione, che ha ribaltato la decisione aziendale, ritenendo il licenziamento ingiustificato.
Licenziato per Whatsapp: la Cassazione ribadisce il diritto alla riservatezza
Il dipendente non solo è stato reintegrato, ma anche ricevuto un indennizzo per il periodo di sospensione forzata. La Corte ha infatti stabilito che la chat, anche se condivisa con più persone, rimane uno spazio privato, dove l’utente può e deve aspettarsi riservatezza e segretezza.
Nel pronunciarsi sul caso, i giudici di Piazza Cavour hanno ribadito un principio fondamentale: la comunicazione privata, a prescindere dal mezzo utilizzato, è garantita dal diritto alla riservatezza: la Corte ha precisato che una conversazione su WhatsApp non può essere paragonata a un post pubblicato su un social network, dove il contenuto è accessibile a un pubblico vasto e indefinito, ma che invece, un qualsiasi messaggio di messaggistica istantanea mantiene caratteristiche simili a quelle di una lettera chiusa o di un’email.
Non a caso l’accesso a questa tipologia di contenuti è spesso secretato e protetto da password o altri sistemi di sicurezza e proprio per questa ragione, la Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento, sottolineando che l’azienda non aveva alcun diritto di acquisire per poi utilizzare come prova messaggi destinati a rimanere privati.
La società, una volta venuta a conoscenze delle espressioni poco cordiali utilizzate dal dipendente grazie alla segnalazione di un collega, aveva di fatto violato il principio di segretezza della corrispondenza. Questo comportamento, oltre a ledere il diritto individuale alla privacy, non rientra nelle facoltà disciplinari del datore di lavoro, che non può in nessun caso imporre sanzioni basate su giudizi morali o su conversazioni confidenziali tra i propri dipendenti.