E’ un po’ il Nebraska di Luca Milani, il suo ultimo lavoro discografico Warriors grown up and die. Da sempre rocker di razza purissima, innamorato in ugual misura di Social Distortion quanto dei Nirvana. il cantautore lombardo non ha mai nascosto anche l’amore per personaggi come Hank Williams e Johnny Cash. Nei suoi dischi precedenti tutte queste influenze affioravano evidenti, alternando bordate di rock’n’roll a ballate intrise di sangue e dolore.
Warriors grown up and die, pur non essendo un disco acustico, lascia invece spazio alla sua vena più intimista e autunnale, un disco black non a caso composto e registrato durante la pandemia, quando sembrava che le tenebre stessero scendendo per sempre sulle nostre vite. Non che adesso, con una guerra che potrebbe diventare mondiale in corso, le cose vadano meglio. Ed è per questo, ma anche per quella oscurità che è parte costitutiva del nostro essere uomini, che questo disco non suona superato, o parte di un momento transitorio.
Con la sua bella voce piena di sfumature noir, capace di trasmettere quel senso di sperdutezza che si può vivere tanto nelle pianure del Midwest americano che nelle nostre metropoli sempre più fredde, Milani racchiude dieci tracce essenziali, con pochissimi arricchimenti sonori, coadiuvato da ottimi musicisti come Fidel Fogaroli, tastierista; Giacomo Comincini, batterista e già accompagnatore di Luca Milani coi Glorious Homeless; Evasio Muraro al basso fondatore dei Settore Out, poi nei Groovers ed infine solista, e Daniele Denti produttore e chitarrista.
Sono canzoni che narrano la raggiunta maturità che inevitabilmente apre la ferita della nostalgia, delle promesse giovanili che non si sono mantenute: “C’è una cosa che devo confessare, le mie cose migliori vivono nel passato”.
Nella maggior parte dei brani le canzoni sono costruite e sostenute da chitarra, ora acustica, ora elettrica e pianoforte, creando atmosfere suggestive e ai margini della periferia (This night, in questo senso, è particolarmente efficace). Dove la chitarra elettrica prende il sopravvento (Empty wound) sono sempre accordi di poche note, cadenzati come campane a morto, come la morte di un cantante amato, Scott Weiland, leader degli Stone Temple Pilots, tributato in Dear Scott, brano cinematografico che si regge sulla sola voce di Milani, note asciutte di pianoforte e una orchestrazione d’archi elettronica possente e maestosa.
Di approccio totalmente diverso, anche lui però come Milani ha optato per l’uso dell’inglese, è il bel disco dell’esordiente Fabio Melis, Runaway Train, pubblicato dalla sempre benemerita Route 61 tornata all’attività dopo un periodo di pausa. Una lunga militanza in una cover band di Bruce Springsteen, gli E Streets of Fire, il cantante del New Jersey è suo punto di riferimento essenziale, ma non il solo. Melis tra le altre cose fa il fonico per diversi programmi di Radio 2, dove ha conosciuto Beppe Basile quando quest’ultimo era batterista nella Social Band di Barbarossa, la house band di quel programma e che suona nel disco di Fabio.
L’approccio energico, positivo e scalpitante del musicista americano è lo stesso di Melis ben accompagnato oltre che dal già citato Basile, da Daniele Di Noia al basso, da Domenico Langella al pianoforte e all’organo. La chitarra è di sua mano. Se Fabio Melis si ispira in modo evidente al cosiddetto Jersey Shore Sound, allora la chicca dell’album è Lovin’ eyes a cui prendono parte i fiati dei leggendari Asbury Jukes, sì quelli di Southside Johnny, guidati personalmente da John Isley.
L’anima springsteeniana del nostro si avverte sin da subito nel brano che apre e intitola il disco, scampoli di Springsteen periodo Darkness e The river si avvertono qua e là ad esempio in You’re my precious one e Learn to walk alone, impreziosita da un bel violino: Melis ha però assorbito così bene le sue influenze da farne brani suoi.
Il disco infatti non si ferma qui, ci sono anche spolverate southern rock, come If we want the world saved dal riff bruciante, e l’altrettanto robusta Love is on its way, in cui il sax di John Isleyla porta a un altro livello.
Un bel disco di classic rock che si conclude con l’intensa ballad pianistica The veil is gone in cui spicca ancora un bel solo di sax, dal crescendo emozionante.