La parola poetica Mario Luzi (1914-2005) incarna più di tante altre la condizione dell’uomo di questo tempo. È una discesa nel mistero della realtà (1)
Nel vasto e ricco panorama della poesia, contemporanea e non, italiana, europea e mondiale, c’è, a nostro giudizio, una parola poetica che incarna più di ogni altra la condizione dell’uomo di questo tempo, dell’uomo-donna-giovane-vecchio odierno, che rivela nella sua sofferenza, nella sua lacerazione, nella sua bellezza, un’attenzione alla vita, alla persona, assente non tanto in altre parole poetiche, ma nella maggior parte delle parole parlate, che informano, ovvero comunicano soltanto in superficie.
Si tratta della poesia di Mario Luzi (Sesto Fiorentino, 20 ottobre 1914 – Firenze, 28 febbraio 2005), di cui ricorre quest’anno il ventesimo anniversario della scomparsa; una poesia, una parola educante, che si pone semplicemente, umilmente, al servizio dell’uomo; lo accompagna nelle sue domande, ne provoca altre, accoglie ed esprime quelle che nascono dalla vita, dal rapporto con le circostanze; si fa, in sostanza, itinerario pedagogico, è Virgilio e poi Beatrice che accompagnano Dante nel suo viaggio; si fa essa stessa domanda, perché accompagna l’esperienza quotidiana, ovvero si fa “garanzia della continuità dell’umano”, come Luzi ha scritto in Discorso naturale, ponendosi in tal modo sullo stesso piano comune, sullo stesso livello dell’esperienza familiare e di quella religiosa.
Parlo della poesia di Luzi, accantonando per ragioni pratiche l’altra sua grande azione letteraria (prose, traduzioni, testi teatrali: dal Libro di Ipazia a Morales, fino a Histryo…), pur col dubbio, anzi con la certezza che anche i drammi luziani non potrebbero non confermare la visione pedagogica, educativa della poesia, della parola-domanda.
Teniamo comunque conto anche dei suoi saggi, dei suoi interventi sulla poesia stessa, “vera contemporaneità di tutti i tempi”, come ricorda il poeta sempre in Discorso naturale, perché, nonostante tutto, questo “tragico tempo”, questo “tempo miserabile”, come scrive ne Il tempo miserabile consumi, è un tempo della poesia, è “il tempo della poesia, il tempo della lingua in poesia, è un tempo in cui si incidono senza tempo le cose che sono sempre accadute e che sono sempre eventuali ed accadibili” (ancora in Discorso naturale) e che tutto nella vita richiama al suo senso, alla sua origine: “|..| l’origine solo l’origine, che non ha storia né immagine”, afferma Luzi Nell’opera del mondo.
Fin dall’inizio del suo itinerario poetico, Luzi è preso come da un’intuizione, da una domanda dai contorni precisi che ricerca “una verità che procede/ intrepida, un sospiro profondo/ dalle foci alle sorgenti”, come afferma ne La Barca e che lo accompagnerà da quei versi ventenni nel suo avvenire poetico e umano attraverso Avvento notturno, Un brindisi, Quaderno gotico, Primizie del deserto, fino ad Onore del vero, il primo punto di una maturità poetica compiuta, in cui la poesia di Luzi è purezza, origine, genitrice, padre e madre insieme, sintesi ed assenza, perché la parola è finalmente sua, soffertamente sua.
Con questo non intendiamo isolare quest’ultima raccolta, perché in Luzi ogni raccolta non è a sé stante, ma è in diretta continuità con la precedente e la successiva; il suo cammino non procede per compartimenti stagni, per momenti ravvicinati, ma per grandi periodi, meglio, per stagioni, per grandi immagini e sequenze, dove la singola poesia, la singola raccolta non appare come un sé, come un unicum, ma, al contrario, fa parte di una totalità.
Del resto, lo ha scritto qualche anno dopo Onore del vero: “La voce del vero poeta dà sempre l’impressione d’una voce perpetua che ricomincia miracolosamente a parlare in quel punto” (L’inferno e il limbo).
Tornando a quella prima compiuta evidenza di Onore del vero, le avvisaglie trovano una loro concretezza fin dalla fine di Primizie del deserto, dove la parola – così scrive ne Il giusto della vita: “|..| tu che soffri, tu sola puoi soccorrermi/ in questo cieco transito dal tempo/ al tempo, in questo aspro viaggio/ da quel che sono a quello che sarò/ vivendo una vita nella vita,/ dormendo un sonno nel sonno” – comincia a rivelarsi nella sua pienezza, anche se si fa largo un “tempo che soffre e fa soffrire”; nonostante “il cammino è per luoghi noti/ se non che fatti irreali/ prefigurano l’esilio e la morte”, c’è “una traccia fine e debole” da seguire, da cercare, quasi un mistero, il mistero: “È incredibile ch’io ti cerchi in questo/ o in un altro luogo della terra dove/ è molto se possiamo riconoscerci./ Ma è ancora un’età, la mia, che s’aspetta dagli altri/ quello che è in noi oppure non esiste”.

In Onore del vero il cammino del poeta è una grande metafora del cammino dell’uomo; esso diventa una specie di passaggio, dove la voce, l’acqua, la strada, “il vento”, che significativamente è l’incipit della raccolta, si abbracciano, si richiamano l’un l’altro, evidenziandosi come in un’unica immagine – una sorta di chiave interpretativa –, in cui la realtà viene a coincidere con la realtà stessa: la natura, “il passaggio”.
La realtà non è però ridotta e riducibile all’ambito naturale, ovvero “non può essere limitata ai caratteri empirici” o a tutta la “serie dei suoi fenomeni”, ma comprende l’“uomo che ne prende coscienza” (L’inferno e il limbo).
La parola, la poesia non si pone più contro la realtà, non ne è più l’alternativa; diventa pertanto una modalità concreta, diventa “vivere nella vita, parlare nella lingua”, come scrive nell’introduzione de L’idea simbolista. La parola si fa fedele alla vita, all’esperienza, e diventa segno di un desiderio e di un bisogno insieme che è della poesia, ma anche dell’uomo, di ogni uomo.
Comunicare, a prescindere dalla modalità specifica della poesia, dalla sua espressività, dalla metrica, dalla riduzione a un genere letterario riservato a pochi addetti ai lavori, sembrerebbe quindi qualcosa di non comunicabile, se non a pochi iniziati, ai seguaci di una specie di gnosi poetica o agli aderenti ad una setta religiosa, per i quali la poesia sarebbe una specie di idolo o un dio da adorare.
La poesia di Luzi, al contrario, comunica, perché vive nella vita e parla nella lingua, perché ha acquisito la consapevolezza di essere, se non la coscienza naturale dell’uomo, almeno una parte di essa. Ritorna la poesia-domanda. “Chi ascolterà le domande che la poesia porta in sé? Chi l’ascolterà la poesia?”, chiede Luzi in Discorso naturale, dimenticando l’ambiguità che sottende questi interrogativi: “C’è il lamento di coloro che protestano perché nessuno li ascolta, come se essere ascoltati fosse un diritto acquisito. C’è lo scetticismo degli altri, i quali non credono importante stabilire il colloquio, lo ritengono superfluo. Gli uomini delle altre discipline, gli uomini di altre certezze. Io direi che ascolteranno le domande della poesia gli stessi uomini che con la loro condizione e con le loro opere le hanno suscitate, perché appunto la poesia non è il poeta che la escogita, ma è l’uomo che la fa nascere. Il poeta è soprattutto il mediatore di queste cose. Quindi queste domande esistono già, siamo noi che le caviamo dalla bocca di coloro che tacciono. Coloro che tacciono perché non sanno di contenerle dentro di sé. |..| Ascolteranno le domande della poesia e dell’arte gli uomini stessi che con la loro condizione e le loro opere le hanno fatte nascere. E le hanno, forse, essi stessi rinnovate nel poeta che è presente fra loro e non è a parte, non è separato da nessun diaframma”.
Dunque, la poesia si fa compagna della vita dell’uomo, cessa, scrive in Discorso naturale, la “sua superbia”, perché finalmente condivide la vita dell’uomo, condivide “la violenza che subisce l’uomo moderno in quanto particella di un ingranaggio produttivo etero-ditretto e in quanto destinatario di una cultura falsamente liberatoria”, in realtà omologante.
Davanti a questa violenza, a questa omologazione, a questa “malattia dell’uomo di oggi”, il poeta non può isolarsi come un novello eremita, non può rifiutare la drammaticità della situazione, “non può respongerla”: Il poeta deve anch’esso soffrirla, non può che interpretarla, può misurare la febbre forse, può dare un nome alla sofferenza, ma non può opporre una sua mostruosa salute, lasciatemi dire, alla malattia del mondo”.
Allora il compito della poesia diventa di testimonianza e di denuncia, di fedeltà a quell’umile potere riunificante che ha l’uso veramente poetico del linguaggio”. Tale compito è “una possibilità offerta anche agli altri, voglio dire al servizio questa volta gratuito, senza corrispettivo, senza contropartita cioè, degli altri. |..| Per lo meno avvisarli, gli altri, di quanto hanno perso, di quanto viene loro sottratto in naturalezza, in umanità, in santità vorrei dire, ogni giorno”.
(1 – continua)
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