La drammatica vicenda di Don Matteo Balzano invita a riflettere sulla figura del sacerdote e il ruolo che hanno per le comunità
Caro direttore, in questi giorni stanno emergendo tanti commenti sulla vicenda di Don Matteo Balzano e sul suo suicidio, così come tanti interrogativi a riguardo del gesto.
Non ho intenzione di fare commenti, né di aggiungere parole alle tante che sono state dette; credo che in certe occasioni l’unico vero commento sia il silenzio: un silenzio non giudicante ma rispettoso. Un silenzio che svuota la nostra quotidianità da parole d’analisi, come se fossimo in grado di svelare il mistero del cuore di un uomo, e la riempie delle uniche parole necessarie, che sono quelle della preghiera.
La drammatica vicenda di Don Matteo mi ha suscitato una riflessione, che non vuole appunto cadere in alcun commento o analisi della triste vicenda.
Quello che è successo infatti pone l’accento sulla figura del sacerdote, inscindibilmente legata alla figura dell’uomo, nonostante ci sia sempre la tentazione di staccare l’uomo dal ministero. Ma come si potrebbe togliere il “Sì” che un uomo pronuncia a Cristo dalla sua umanità? Come se Cristo non agisse attraverso la propria umanità!
Ecco perché credo sia il caso, in questi tristi giorni, di rinnovare il nostro sguardo sulla figura dei sacerdoti, il nostro sguardo sul dono del sacramento a cui Cristo chiama alcuni, non per una preferenza in termini umani (in un certo senso siamo tutti preferiti, tanto che i padri e le madri, così come i sacerdoti stessi, trovano compimento nella diversità della loro vocazione solo nel rapporto con l’unico Cristo), ma perché tale chiamata è per essi il raggiungimento della pienezza umana.
Si chiama vocazione: “Se sarete ciò che dovete essere metterete fuoco in tutta l’Italia” (Santa Caterina da Siena). Una pienezza umana che, qualunque essa sia, può nascere solo da una chiamata del Mistero.
Il dono del sacerdozio vede tutti partecipi, coloro che sono consacrati così come coloro che, appartenenti alle realtà ecclesiali, accolgono i sacerdoti. A ognuno è infatti chiesto di guardare i religiosi innanzitutto come un dono, come uomini che donano la propria vita, cioè che donano sé stessi, con le loro fragilità e i loro pregi, così come sono: “Il Signore non cerca infatti sacerdoti perfetti, ma cuori umili, disponibili alla conversione e pronti ad amare come Lui stesso ci ha amato” (Leone XIV).
È necessario riprendere dunque coscienza della grandezza del dono che tutta la comunità riceve tramite la presenza dei sacerdoti; uomini che, stendendo le mani durante la messa, fanno sì che quel pane e quel vino diventino Corpo e Sangue di Cristo. Non per un loro merito particolare, né perché migliori di altri, ma per il ministero che Cristo stesso conferisce loro.
Guardiamo dunque ai sacerdoti con questa duplice visuale, uomini che donano se stessi per amore, magari mandati lontano da casa, distanti dagli amici, in posti a loro sconosciuti, e che sono anche segno concreto del Mistero di Cristo in mezzo a noi. Uomini che sono dunque un dono per le proprie comunità. Un dono per tutta la Chiesa.
Mentre dunque preghiamo per Don Matteo, preghiamo anche per la sua famiglia, per la sua mamma, il suo papà e i fratelli, che hanno anch’essi donato Matteo alla Chiesa. Dunque preghiamo per lui, certi che il Mistero di Dio è più grande di qualsiasi male (“La bontà infinita ha sì gran braccia che prende ciò che si rivolge lei”, Purgatorio canto III), e ringraziamo il Signore per il dono del ministero ordinato, via che ha scelto per farsi pane e vino, cioè incontrabile, sperimentabile, presente e contemporaneo a noi.
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