Nei testi di questo esame di maturità 2025, le “grandi questioni” di questo tempo. Ma la sospirata originalità negli svolgimenti non dipende dalle tracce
Come non riconoscere, nei versi di Pasolini, in queste tracce della maturità 2025, la luna leopardiana, quella medesima natura presente negli idilli o il sogno nostalgico della giovinezza? Come non vedere accamparsi nella mente le caratteristiche, sempre equivalenti, dei periodi di crisi e di cambiamento politico, così frequenti nella storia del Novecento? O come non sentire vicino a noi il connubio nefando fra quarto potere e sistemi di governo, che altro non sono che totalitarismi mediatici?
E poi, ancora, come non sentire vera la necessità di recuperare una parola come “rispetto”, i cui opposti sanguinari e violenti spesso campeggiano sulle pagine dei quotidiani? O, ancora, quella di riscoprire il valore assoluto delle parole, mistificate dagli schermi ma sempre efficaci come proiettili?
Ed infine l’invito appassionato di Borsellino ai giovani o la provocazione ironica a decidere quale tipo di celebrità desideriamo per il futuro del nostro pianeta e per la nostra specie umana…
Insomma, sì, le tracce dell’esame di maturità 2025 erano tutte abbordabili e fattibili. Certo, Pasolini o Tomasi di Lampedusa potevano suscitare un immediato brivido di sconcerto, in quanto autori difficilmente contemplati nei programmi svolti di tanti nostri studenti; tuttavia, le domande di analisi ed anche le consegne interpretative, in realtà, davano modo di rispondere agevolmente e di svolgere riflessioni di ampio respiro, chiedendo di connettersi ad altri autori o ad altre epoche storiche.
Sicuramente la scelta di questi autori segnala una preferenza del ministro Valditara per la letteratura e la storia dell’Ottocento, in particolare nella sua ultima fase – ha già pubblicamente citato Leopardi, Mazzini, anche D’Annunzio, evidenziando la loro mancata conoscenza, o confusione, nella mente dei nostri alunni.
Effettivamente, forse in tanti avranno scartato le due proposte della Tipologia A, dal momento che Pasolini quasi nessuno lo studia, i temi leopardiani e la crisi gattopardesca sono questioni solitamente affrontate al termine della classe quarta, ma, d’altra parte, i più fortunati possono avere svolto – di rincorsa – questi argomenti all’inizio della classe quinta e saranno stati sicuramente avvantaggiati.
Per quanto riguarda le altre tracce, i nostri ragazzi avevano comunque varie alternative possibili: dall’ecologia con Telmo Pievani alla mafia di Borsellino, dalla gestione del potere mediatico con Brendon al rispetto come cura dell’altro, fino al consueto spunto riflessivo sui social e sull’emotività violenta della vana indignazione.
Tutte tracce affrontabili, perché un qualsiasi studente di quinta, se anche nulla ricordava degli idilli leopardiani, o del rapporto fra aristocrazia e borghesia, avrebbe potuto comunque fare un’ottima prova scegliendo una delle altre tipologie, dentro cui emergevano temi legati a vari ambiti disciplinari, temi di attualità e educazione civica.
Tuttavia, qui arriviamo al punto cruciale. Negli ultimi anni, le tracce si sono rivelate sostanzialmente sempre alla portata dei nostri ragazzi, eppure giustamente lamentiamo testi troppo spesso banali, poco originali, così qualunquisti che “letto un tema, letti tutti”. Al netto della forma (struttura coesa e coerente, lessico adeguato, correttezza ortografica e sintattica), ci aspettiamo di leggere qualcosa di ben argomentato, soprattutto qualcosa di vero e di personale, che racconti o giudichi un’esperienza ed evidenzi un rapporto vivo con lo studio, dunque con la realtà.
Invece, quando questo accade, si tratta di un vero e proprio avvenimento ed è su questa anomalia che dovremmo interrogarci noi docenti, non su quale autore o quale argomento avremmo dovuto fare meglio o in più: se i nostri ragazzi arrivano al termine del quinquennio e sanno ripetere soltanto quello che arriva dalla massificazione mediatica, oppure dal libro di testo, o dal docente stesso; se tanti hanno la stessa visione, la medesima percezione, parcellizzata o ridotta, delle grandi questioni non solo del mondo, ma della propria vita; se faticano a dare un semplice giudizio che nasca dal paragone con se stessi;
se non vedono legami fra ciò che studiano e la realtà circostante e, quindi, non sanno che farsene di Tomasi o Roosevelt; se fino alla fine scrivono non per esprimere le proprie idee al mondo e dimostrare la propria maturità, ma per arrivare ad un certo punteggio: ecco, non si tratta di un problema ascrivibile ai prof di italiano o alla forma dell’esame di Stato, ma di recuperare lo scopo profondo della professione docente, la natura ed il metodo della disciplina che insegniamo, che altro non è se non introduzione al rapporto con la realtà totale.
Il dialogo continuo fra lo studio e la realtà contemporanea, il paragone serrato fra le esigenze umane e gli argomenti disciplinari, il giudizio argomentato su tutto, anche se dentro l’aula: in questo risiede la funzione educativa della scuola e da questo soltanto potranno anche nascere testi più veri ed originali all’esame di Stato.
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