Mediobanca passa nelle mani di Siena: le tappe future di un percorso che renderà la banca un colosso in grado di competere in Europa
Con l’86,3% di Mediobanca in mano a Siena, l’Opas ha cambiato i rapporti di forza nel credito italiano. Per Monte dei Paschi si apre ora la fase più delicata: la governance. Entro il 3 ottobre dovrà essere presentata la lista per il nuovo consiglio di amministrazione di Mediobanca, che avrà una composizione più snella (9–11 membri rispetto agli attuali 15) e con un ceo scelto all’esterno. Il lavoro è nelle mani del Comitato nomine presieduto da Domenico Lombardi, affiancato dalla società di head hunting “Korn Ferry”, sotto la regia dell’a.d. Luigi Lovaglio e del presidente Nicola Maione. L’obiettivo è costruire un board di alto profilo, conforme ai requisiti della vigilanza europea e capace di guidare una nuova stagione per Piazzetta Cuccia.
Intanto Maione, il grande regista di questa operazione, riafferma la natura industriale dell’operazione: «Abbiamo creato il terzo polo bancario del Paese, competitivo a favore del sistema economico. Gli obiettivi sono tutti davanti, anche quelli impossibili».
Tra delisting e nuovi equilibri azionari
La partita non riguarda solo la governance. Dopo l’Opas, Mps possiede oltre i due terzi del capitale di Mediobanca, abbastanza per controllare l’assemblea straordinaria e ipotizzare una fusione. Il delisting non è un’urgenza: sotto il 90% Siena non ha obbligo né di opa residuale né di ripristino del flottante. Una pausa consente di rassicurare i dipendenti, mandare un segnale di continuità al mercato e lasciare che la Bce, arbitro finale delle strategie, esamini il percorso. In prospettiva, però, il ritiro dalla Borsa resta probabile: semplificherebbe governance e ridurrebbe i costi di compliance.
A cambiare è anche la mappa dei soci del Monte. Delfin della famiglia Del Vecchio è il primo azionista (18% dal 21% precedente), seguito da Caltagirone (11% dal 12%) che ha chiesto alla Bce l’autorizzazione a superare stabilmente il 10%. La quota del Mef è pari all’5% (dal 12%) mentre quella di Banco Bpm è del 2%.
Il nodo Generali e il disegno industriale
Con Mediobanca, Mps eredita indirettamente il 13% di Generali. È un pacchetto che può pesare nel cantiere triestino, dove Delfin, Caltagirone e altri soci stabili guardano a una stagione di dialogo con il ceo Philippe Donnet, impegnato in un piano di remunerazione da 8,5 miliardi tra dividendi e buyback. Non è un terreno di scontro come in passato, ma un tavolo di composizione di interessi strategici.

Sul piano industriale, due i binari aperti. La fusione è tecnicamente percorribile, ma resta in piedi anche l’ipotesi di mantenere Mediobanca come entità separata per valorizzarne le specializzazioni: corporate & investment banking e private banking a Piazzetta Cuccia, credito al consumo e wealth management nella capogruppo senese. È lo schema già sperimentato da Banco Bpm con Banca Akros: specializzazione e sinergie, senza forzature societarie.
La direzione tracciata da Maione e Lovaglio è chiara: niente accelerazioni imposte, ma un percorso fatto di tappe concrete. Governance prima, integrazione operativa poi, e solo quando converrà a vigilanza e business il possibile delisting. È questa la traduzione pratica della sfida agli «obiettivi impossibili»: trasformare una scalata contestata in un campione domestico, radicato nell’economia italiana e pronto a competere in Europa.
