Ieri è stato il monaco cistercense Erik Varden, vescovo di Trondheim (Norvegia), a tenere la lezione sul titolo del Meeting 2025
Appartiene al deserto, accennato nel distico di T.S. Eliot che fa da titolo all’edizione di questo Meeting di Rimini (Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi), l’aridità a cui è arrivata la comunicazione tra gli uomini.
Dialettica vuota ed irritante nella vita pubblica, comunicazione a base di slogan dove l’uso della ragione sparisce, schermi che sputano immagini al posto delle opere classiche… Il monaco e vescovo Erik Varden si è presentato davanti alla platea riminese non con l’ennesimo tentativo di attirare l’attenzione a partire da risorse multimediali, ma tornando in modo paradossalmente efficace alla radice del linguaggio: la sua natura simbolica (significante e significato irrimediabilmente uniti nella parola).
Così come i classici attingevano ai miti greci, il monaco Varden ha attinto per un’ora all’opera simbolica che, insieme a quei miti, ha costruito la nostra civiltà: la Bibbia, più specificamente i grandi racconti dell’Antico Testamento.
Ecco la grande risorsa che restituisce la fecondità alle parole: un punto di partenza nelle storie e nelle immagini sempre ricche della Bibbia. Da Adamo a Caino, dall’Eden, come habitat congeniale, a Babele, prima metropoli costruita senza Dio; da Gerusalemme, la città redenta dalla presenza del tempio divino, alla Chiesa come luogo che custodisce le parole essenziali per il nostro tempo.
Come filo rosso, l’idea di costruzione. Ma la stessa idea di costruzione è sottesa dalla nostalgia del giardino del Paradiso, dove regnava un’armonia con tutto, a partire dalla comunione con Dio. La perdita di quell’armonia segna tutti i tentativi ulteriori di costruzione che, essendo concepiti al margine di Dio, irrimediabilmente finiscono per essere contro l’uomo stesso e contro gli altri.

Ed ecco che Dio rientra nella costruzione con la scelta di Abramo, l’uomo che accoglie Dio stesso nella figura di quei tre strani viaggiatori. La legge donata ad Israele sul Sinai diventa un principio di costruzione giusta della convivenza umana. Il tabernacolo prima, e il tempio dopo, costituiscono la prima dimora di Dio in mezzo agli uomini che in un certo senso redime il concetto di città, facendo di Gerusalemme il paradigma della collettività ordinata. È la presenza divina che permette una costruzione che non è violenta o non si rivolge contro l’uomo. Diventa così promessa che dovrebbe raggiungere tutta l’umanità.
Ma se uno contempla in quest’ultimo tempo la violenza che è in corso nella Terra Santa, sorge naturale la domanda: Non è forse la difesa di quella città paradigmatica, Gerusalemme, origine di quello spiraglio di odio che è agli antipodi dell’armonia tra i popoli? Pensiamo al Muro del Pianto, dove si sente la tensione tra il desiderio di ricostruire il tempio e la presenza delle moschee, luogo sacro per i musulmani palestinesi. Come può una dimora, una città, un luogo fisico, non diventare oggetto di contesa tra gli uomini?
Il percorso di Varden accoglie, nel suo culmine, questa giusta obiezione. Nella pienezza dei tempi, come compimento della grande promessa, la Chiesa, corpo di Cristo, diventa la nuova e definitiva dimora di Dio in mezzo agli uomini. Cristo ha reso possibile la riconciliazione di tutti i popoli. La Chiesa che dobbiamo costruire non è più un edificio di pietre, ma quella che fa di noi “dimora di Dio nello Spirito”.
Ecco la nostra missione, finisce il monaco-vescovo: “Solo quando quel tempio sarà stato costruito, quando noi saremo diventati quel tempio, il nostro lavoro sarà compiuto”. Come i cristiani in Terra Santa: costituiscono quel tempio che, non avendo pietre da difendere, diventa luogo di riconciliazione, luogo dove, nell’esperienza del perdono, si ferma lo spiraglio della violenza.
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