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Home » Meeting di Rimini » MEETING/ McCann e Cercas, senza parole più vere siamo destinati a perdere noi stessi

  • Meeting di Rimini
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MEETING/ McCann e Cercas, senza parole più vere siamo destinati a perdere noi stessi

Carlo Dignola
Pubblicato 25 Agosto 2025
L'incontro con Calum McCann (Foto: MEETING)

L'incontro con Calum McCann (Foto: MEETING)

La comunicazione oggi è fuori strada. Serve tornare a storie vere, come quelle di McCann e Cercas, per costruire pace e dialogo

Come va la comunicazione oggi? Siamo un po’ fuori strada, a vari livelli e scale di grandezza, dai social media al giornalismo, al racconto dei testi sacri. Ma cambiare metodo si può: è l’idea che esce dall’incontro Una comunicazione che costruisce comunione, moderato da Linda Stroppa, giornalista Rai, ieri al Meeting. Che ha interrogato un giornalista un po’ anomalo e due scrittori che, forse perché guardano alla cronaca con un certo distacco, sanno coglierne i limiti e metterli in luce senza mezze parole.


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Colum McCann, autore irlandese naturalizzato negli Stati Uniti, nel 2021 ha pubblicato con Feltrinelli un libro molto letto, Apeirogon, in cui si è calato con lucidità in uno dei conflitti più incancreniti di questi decenni, raccontando la (vera) storia di Bassam Aramin e Rami Elhanan, palestinese il primo, israeliano il secondo: entrambi hanno perso una figlia nei meccanismi della guerra. La morte delle due bambine è una ferita, uno squarcio che apre gli occhi a una possibilità ulteriore, quella del dialogo e della comprensione, unica strada per arrivare a una pace.


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“Il giornalista – dice McCann – oggi non deve semplicemente impostare sul GPS le coordinate della sua immaginazione, deve invece uscire in strada e raccontare le storie che accadono. Anche a volte quelle che non vuoi raccontare. Interessarsi di nuovo a storie di normalità: allora credo che inizieremo a curare e a guarire alcune delle nostre ferite. Attraverso storie semplici, che però sono indici della condizione umana. Il poeta Seamus Heaney diceva che in certi momenti ‘storia e speranza possono rimare'”.

Colum McCann al Meeting di Rimini 2025
Colum McCann al Meeting di Rimini 2025

McCann racconta che Rami e Bassam, i protagonisti del suo libro, un anno fa sono stati invitati dalla TV israeliana: davanti alle telecamere hanno parlato del fatto di essere diventati amici, di un bellissimo incontro che avevano avuto con Papa Francesco, “ma quando hanno iniziato a dire qualcosa sulla situazione in Israele e Palestina l’emittente li ha tagliati dicendo: ‘Queste cose non le possiamo mandare in onda’. La censura contro persone che promuovono la pace e l’amicizia mi sembra un problema grandissimo. Come può accadere una cosa del genere?!”.


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Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, denuncia la comunicazione povera a cui ci hanno abituato gli ultimi decenni: “Quando io ho iniziato a fare il giornalista un vecchio del mestiere mi disse: ‘L’importante è fare titoli accattivanti’. Questa cosa a me non piacque già allora, e ho sempre cercato di fare un altro tipo di giornalismo, che secondo me è possibile e non è vero che non funzioni. Già nella radice della parola accattivante c’è l’idea di far prigioniero (captivus) qualcuno, di chiuderti dentro un perimetro nel quale finisci per diventare anche più cattivo”.

Oggi “bisogna ridare un senso alle parole che abbiamo consumato logorando i significati. Credo che i giornalisti debbano ritrovare questa capacità anzitutto di vedere, e poi di raccontare storie reali, che oggi gli scrittori hanno più di loro”. Ma non è un problema solo della categoria; in tutta la società, dominata ormai dalla comunicazione via social media, “ci si parla senza dare il senso della profondità. Niente di nuovo tuttavia: queste cose in maniera diversa sono sempre successe, da Babele in poi, che è, come diceva il cardinale Martini, il luogo degli incontri mancati e dei fraintendimenti. Forse il nostro tempo è un po’ babelico, ma non siamo alla fine dei tempi. Come diceva Romano Guardini, sulle orme di Sant’Agostino: noi siamo il nostro tempo. Basta viverlo con la determinazione di cambiarlo, e l’umiltà di sapere che non saremo noi, da soli, a poterlo fare”.

Javier Cercas, che oggi è uno dei maggiori scrittori di lingua spagnola, all’inizio dell’anno ha pubblicato (con Guanda) Il folle di Dio alla fine del mondo. Racconta il suo viaggio in Mongolia del 2023 insieme a Papa Francesco, al quale aveva deciso di porre una questione che riguardava sua madre, ultranovantenne: “Quando mio padre è morto, lei disse che lo avrebbe rivisto dopo la propria morte. E non lo diceva perché fosse una persona stravagante, strana. Lo diceva perché era una vera credente”.

Cercas si definisce “un uomo normalissimo, nato in Spagna, che è stato educato nella fede ma l’ha perduta”. Peggio: un “anticlericale e laicista militante” e un “razionalista ostinato”. Ha voluto avvicinare “quel ‘folle di Dio’ che è stato Papa Francesco – allo stesso modo San Francesco definiva se stesso”. Lo ha voluto accompagnare “fino alla fine del mondo” per fargli appunto la domanda “molto semplice” di sua madre.

“Avevo conosciuto il Papa – racconta – durante l’incontro che aveva voluto con gli artisti. Paolo Ruffini mi ha chiesto di che cosa volessi parlare con lui e gli ho risposto: ‘Solo di una cosa, della mia mamma e di quello che diceva a proposito di mio padre: voglio chiedergli della resurrezione della carne e della vita eterna’”. Ricorda il silenzio che “è improvvisamente calato” nelle stanze vaticane: “‘Di queste cose nessuno parla’ – mi hanno detto. Eppure è la domanda fondamentale, è il centro del Cristianesimo. Non lo dico io, lo diceva San Paolo: senza la resurrezione non esiste il Cristianesimo. È l’enigma degli enigmi”.

La Chiesa, dice Cercas, oggi ha un problema di linguaggio, di cui forse chi ci vive dentro non si accorge: eppure è “molto evidente”. Fa l’esempio della parola sinodalità, importante almeno dal Concilio Vaticano II in qua, “eppure quasi nessuno la capisce”. Ma persino nella comunicazione delle verità di fede fondamentali, per Cercas il linguaggio troppo “soft” delle curie sfuma proprio l’essenziale: “Il Cristianesimo – dice – è nella storia una cosa assolutamente rivoluzionaria. Un messaggio che ha cambiato il mondo. Cristo era uno che diceva cose pericolose, la crocifissione infatti allora era riservata ai criminali più pericolosi. Lui ha fatto una rivoluzione evidente, sociale. Noi stessi siamo il risultato di questa rivoluzione: non si capisce l’Europa, non si capisce l’Occidente senza di essa, che tuttavia è una rivoluzione metafisica”, e proprio per questo ha avuto effetti più duraturi di quelle politiche: “Nessun’altra istituzione umana esiste da duemila anni”.

La Chiesa, per lo scrittore spagnolo, “usa un linguaggio vecchio, che manca di vitalità e che non è quello di Gesù: le cui parole hanno cambiato il mondo perché erano attraenti per la gente. Il linguaggio della Chiesa oggi non lo è. È un linguaggio ermetico, che spesso le persone – anche molti cattolici – non capiscono. Abbiamo bisogno di cambiarlo”.

 

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