Non è la prima volta che i flussi di migranti verso l’Italia si intrecciano a disegni politici interni, nei quali i magistrati hanno un ruolo politico

“Molti giustamente hanno condannato le parole di apprezzamento che Mario Draghi ha usato nei confronti delle autorità libiche per il salvataggio di vite umane nel Mediterraneo. Come se tuttora quei porti non fossero marchiati ‘non sicuri’ perché i ‘salvati’ sono di regola destinati a campi di detenzione, ove le organizzazioni umanitarie dell’Onu hanno accesso limitato o inesistente, proprio a causa delle atrocità che vi sono commesse”.



Lo scriveva, nell’aprile 2021, il Manifesto, all’indomani di una visita dell’allora premier italiano a Tripoli: appena sette settimane dopo l’insediamento del suo governo istituzionale, benedetto dal presidente Sergio Mattarella.

La solerzia nel prendere contatto con le autorità libiche internazionalmente riconosciute era stata dettata a Draghi – annotava l’Ansa – dalla necessità di tutelare e promuovere “gli investimenti italiani” al di là del Mediterraneo (minacciati soprattutto dalla Francia dopo l’operazione Nato del 2011, ndr) e di rafforzare “la cooperazione contro il diffondersi del Covid” (attraverso i flussi di migranti verso l’Italia, ndr).



Mario Draghi al Meeting di Rimini nel 2022 (ANSA, Filippo Attili)

Il Manifesto denunciava il flirt del premier-banchiere con il “governo” di Tripoli – pur a evidenti fini di sicurezza nazionale – sotto questo titolo: “Una pagina nera nella storia d’Italia”. Draghi era infatti volato in Libia mentre in Italia era alto il polverone alzato da un’inchiesta aperta dalla Procura di Trapani su una nave di una Ong tedesca, attiva nei “salvataggi” di migranti nel canale di Sicilia. Nei documenti di fine-indagine dei magistrati siciliani erano emerse intercettazioni di polizia giudiziaria anche nei confronti di giornalisti non indagati.



Lo sdegno mediatico fu corale e unanime, concentrato contro i magistrati che avrebbero “esondato” nelle loro indagini sulla rete dei contatti e accordi (in gran parte sotterranei) fra autorità italiane, “autorità” libiche, milizie e Ong assortite. Tutte impegnate – con obiettivi spesso conflittuali – a gestire un’emergenza migratoria aggravatasi nell’ultima fase del quinquennio di governo del centrosinistra.

In quella primavera 2021 il ministro della Giustizia del governo Draghi, Marta Cartabia, ordinò dal canto suo un’ispezione sulle indagini condotte dalla Procura di Trapani. Le attività pro-migranti delle Ong e i contatti con i giornalisti avrebbero dovuto restare più o meno “segreto di Stato”: certamente per Pd, M5s e sinistra antagonista.

Nel frattempo si sentì in dovere di intervenire Marco Minniti. Lo storico braccio destro di Massimo D’Alema era stato chiamato al Viminale da Paolo Gentiloni. Era stato lui – di fronte all’emergenza sbarchi ormai sfuggita di controllo all’operazione Mare Nostrum condotta dai governi Letta e Renzi su input Ue – ad avviare contatti non ufficiali con tutti i “giocatori” sulle coste libiche, diventate terra di nessuno dopo il 2011.

Contro il business dei taxisti del mare, Minniti – è stato scritto senza vere smentite – aveva messo in campo i servizi di sicurezza oltre a non trascurabili risorse finanziarie pur di arginare le ondate di barconi spinte in mare dalle bande per essere “accolte” dalle navi delle Ong in acque internazionali. I flussi migratori, in effetti, diminuirono prima delle elezioni 2018.

Nei giorni del polverone politico-mediatico-giudiziario di Trapani, la principale preoccupazione dell’ex ministro Minniti parve quella di allontanare da sé il sospetto che fosse stato il suo ministero a ordinare o sollecitare le intercettazioni al Pm. Queste ultime – osservava – destavano  “giusti e forti interrogativi” e quindi “ha fatto bene il ministro Cartabia a ordinare un’ispezione a Trapani”.

Minniti si disse in ogni caso “orgoglioso” di essere stato ministro in un Paese “in cui esiste la separazione dei poteri, in cui nessuno può pensare che un magistrato si faccia dare ordini da un ministro”. Nel caso specifico Minniti sembrò sottendere il sospetto che a sollecitare la procura di Trapani fosse stato un altro ministero o forse un altro governo.

Rimase agli atti, in ogni caso, la ri-affermazione di principio dell’invalicabilità nei due sensi del muro costituzionale fra Parlamento-Governo e magistratura, sullo specifico terreno migratorio.

Tra anni dopo la sua uscita dal Viminale, Minniti parve nell’occasione temperare la paternità piena del cambio di strategia sul fronte libico, con una puntualizzazione singolare. Riguardo a una nota del 12 dicembre 2016 scritta dall’Ufficio immigrazione del Dipartimento di pubblica sicurezza del Viminale che avrebbe in qualche modo suggerito l’indagine di Trapani, sottolineò: “Nelle stesse ore in cui veniva diramata la nota io ero al Quirinale: stavo giurando come nuovo ministro dell’Interno. Non avrei mai potuto essere così rapido… gli uffici hanno comunque una loro autonomia e non dipendono dai ministri”.

Nell’appoggiare l’approccio dialogante e costruttivo di Draghi con la Libia, Minniti volle ribadire una strategia geopolitica complessiva che Gentiloni (poi commissario Ue) e lui stesso aveva concepito nel 2017: “L’Italia e l’Europa devono svolgere un ruolo importante nella ricostruzione della Libia, aiutando il nuovo governo. Dovrebbero finanziare la ricostruzione della Libia e creare nuovi corridoi umanitari in grado di svuotare i campi profughi. Garantendo gli afflussi concordati con gli Stati e punendo quelli illegali”.

Il governo Meloni sta sviluppando un proprio “Piano Mattei” a vasto raggio in Nord Africa e Medio Oriente. Nel frattempo la Francia di Emmanuel Macron, la Germania di Friedrich Merz e la Gran Bretagna di Keir Starmer stanno accelerando l’escalation contro l’immigrazione irregolare. Contro l’immigrazione “tout court” anche quando i magistrati della Corte di giustizia dell’Ue continuano a puntellare i magistrati italiani contro il governo italiano.

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